Citazioni e critica all’arte di Duccio

Citazioni e critica all’arte di Duccio (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Pagine correlate: Biografia e vita artistica – Le opere . Il periodo artistico – Duccio dalle Vite di Vasarila critica del Novecento.

Come hanno parlato di Duccio gli studiosi di Storia dell’arte:

Duccio di Buoninsegna: (G della Valle, “lettere senesi): …. La maniera [nella Maestà] è di Guido da Siena, sebene di molto rammorbidita, e migliorata. Nelle figure grandi vi sono delle teste, de’ piedi, e delle mani, che relativamente a que’ tempi, sono bastantemente disegnati; alcune fisionomie non sono prive di grazia, ma per lo più portano in fronte il turbamento, e lo scompiglio dell’età, in cui furon fatte; le membra non hanno la secchezza della maniera greca d’allora […].

Nella parte, che guardava il coro in molti scompartimenti vi è dipinta la vita di Gesù Cristo con figurine alte un palmo circa, parato, e copiato più d’una cosa, e così dagli altri scompartimenti, perché per anni questa tavola dovette essere il regolo dell arte.          G  della valle, Lettere senesi … sopra le belle arti, II, 1785.

II primo fiore della nuova stagione, il fiore dal cui seme sbocciò tutta l’arte senese, fu Duccio di Buoninsegna […].

Tutto ciò che il Medioevo chiedeva a un pittore, Duccio lo realizzò alla perfezione […]; non soltanto produsse le più belle pittografie immaginabili, ma permeò tali narrazioni dei significati morali che il suo genio percepiva, innalzando al proprio livello di percezione coloro che guardavano la sua opera

[…] Duccio possedette in gran copiandoti di espressione e interpretazione, la grandezza di concetti e la profondità di sentimenti che sono essenziali alla grande illustrazione; ciò significa anche che egli dominava la forma e il movimento in misura tale da poter conseguire gli effetti che gli premevano.

[…] Duccio insomma era in grado di trasformare quelle iconografie, che da secoli i devoti si sforzavano di decifrare, in illustrazioni che estraevano ed esaltavano tutto il significato dell’evento sacro, o almeno quella parte di significato accessibile alla niente medievale. Gi si deve quindi porre la questione se egli riuscì altrettanto bene a conferire a tali invenzioni visive un valore intrinseco che vada al di là di quello illustrativo; e se, nella pittura di Duccio, le immagini, investite di elementi decorativi, giungano ad elevarsi nella sfera delle grandi opere d’arte. […]

I pannelli della Maestà incantano dapprima per il loro splendore sommesso; suggestivi come antichi mosaici, con l’oro che il tempo ha coperto di una patina bronzea, intonano il nostro sentimento agli episodi che vi sono raffigurati. È un’impressione quanto mai diretta e immediata, ma priva di particolare valore, ove la si consideri in un orientamento artistico, perché il piacere che ne deriva supera di poco quello che verrebbe procurato dalla materia pittorica di per sé. […] Quando si considerano però con maggior attenzione, si rilevano nei dipinti di Duccio qualità essenziali a una buona illustrazione e di alto valore decorativo. Si osserva con quanto mirabile abilità sappia evocare lo spazio a chi guarda […]; [… e] che si tratti di peculiarità artistica, non indispensabile alla pura e semplice illustrazione, lo attestano: nella loro differente qualità, opere di quasi tutti gli illustratori attuali.

E in altro aspetto si rivela l’eccellenza di Duccio: ad raggruppamenti. [… che] producono effetti di massa e di linea, belli per se stessi, piacevoli a vedersi, e armoniosamente distribuiti sulle superfici. In altre parole. Duccio compone bene.

Ma se Duccio riuscì talmente sublime nelle concezioni, e profondo nei sentimenti, oltre che abile a trascriverli in forme appropriate; se in aggiunta a questi meriti illustrativi egli ci affascina con lo splendore della materia delle superfici; se compone come pochi, eccettuato Raffaello, e neppure gli manca il senso dello spazio, perché di lui si sente parlare così di rado? perché non è famoso quanto Giotto? e non è nel novero dei massimi pittori? […] Come si spiega che l’uno continua a essere una forza viva, e l’altro è ridotto l’ombra di un nome? Deve esistere un uiaticum che, a chi lo possiede, apre i cuori, sulle desolate distanze del tempo; un segreto che Giotto conosceva e del quale Duccio non ebbe percezione.

Che cos’è, e in che cosa consiste, questa virtù misteriosa e corroborante? La risposta è breve: è la vita stessa. Se l’artista riesce a impadronirsi dello spirito vitale e a trasmetterlo alla propria opera, essa vivrà nel tempo […]. E se egli, liberando tale spirito e rivelandocelo, ne accrescerà la forza vitale che portiamo in noi, allora, finché gli uomini saranno sulla terra, questo artista li avrà in suo potere […].

E torniamo a Duccio. I suoi dipinti non posseggono tali qualità, e perciò sono stati quasi dimenticati: mentre le opere di Giotto le contengono a un grado così eccezionale che, anche oggi, sono collocabili con poche altre al culmine della gerarchla pittorica. A Duccio la figura umana interessava quasi esclusivamente come personaggio di un dramma; quindi come momento di una composizione; e soltanto per ultimo, ed eventualmente, come elemento capace di stimolare idealizzate sensazioni di tatto e di movimento. Ne risulta che si ammira moltissimo Duccio come una specie di drammaturgo pittorico, come un Sofocle cristiano, perdutosi chissà come nel regno della pittura;

si gode in lui lo splendore della materia, la squisitezza della composizione, non trovando che di rado o mai nelle sue opere quanto è necessario ad esaltare direttamente il nostro senso vitale […].

Tale fu Duccio. E se fosse riuscito qualcosa di meno, sarebbe forse stato meglio per l’arte dell’Italia centrale […]; Duccio trasmise ai propri successori concetti e metodi strettamente suoi; e abituando gente emotiva come la senese ad un’arte fondata soprattutto sul sentimento, obbligò quelli che vennero dopo di lui a ingolfarsi nel genere, pericolosamente popolare, dell’illustrazione Sentimentale. B Berenson in §Central Italian painters 1897

[…] Duccio di Buoninsegna è sempre uguale e ligio alle forme apprese nella giovinezza, nobile, delicato, ma senza parola. Si compiace di far rifulgere come soli Cristo e Maria, segnando raggi d’oro nelle tuniche e ne’ manti, quali si vedono nelle opere ageminate e smaltate de’ Bizantini; ma una tale convenzione era comune all’arte italiana della fine del Dugento e del principio del Trecento. Sugli edifici, come di tarsia colorata, fece spiccare le imagini aggraziate, le composizioni corrusche d’oro. A tutta prima per l’effetto si posson credere derivate da Bisanzio, ma chi bene le guardi riconosce che solo nell’esteriorità richiamano l’arte greca e che sviluppano in ritardo le forme che Giotto aveva fatto cadere in disuso. L’arte bizantina, quale era stara elaborata dai pittori italiani nel Dugento, disseccatasi a Firenze e dovunque Giotto stampò le sue orme, ebbe un continuatore in Duccio, che ingioiellò le forme anti­quate e dette loro italiana bellezza.   A. venturi, Storia dell’arte italiana, V, 1907.

Nelle sue composizioni, nel modo di disporre le figure a gruppi o di collocarle isolatamente nello spazio pittorico e di calcolare i rapporti fra lo spazio stesso e le figure, Duccio rivela la sua superiorità non solo rispetto agli artisti bizantini contemporanei o anche posteriori, ma allo stesso Giotto.

È ancora a Duccio che dobbiamo il senso del realismo nel particolare, che durante il Trecento costituisce un fattore essenziale nella pittura della scuola senese; nel disegno della figura umana, invece, Duccio rimase molto più legato di Giotto alle convenzioni orientali e nettamente inferiore a lui in quanto a capacità narrative e drammatiche, rivelando in ciò […] la sua sensibilità bizantina.  R. van marle, The Development of th Italian Schools  of Paintings, 1924.

[…] il fattore principale dell’arte di Duccio è il bizantino:

rilevantissimo nella iconografia, che pur Duccio in parte rinnovò, soprattutto consiste nel modo di vedere e di modellare a tutto colore, rendendo insensibili i contorni, in maniera analoga a quella di Pietro Cavallini, con tecnica che ha riscontro nell’arte bizantina dalla preparazione del dipinto fino alle ultime lumeggiature, ma con senso personale di delicati toni e con tale ricchezza cromatica che distingue in tutto il nuovo maestro, già propriamente senese. Quanto Duccio abbia posseduto l’arte bizantina, non nelle forme tardive, violente e senza finezze, ma in quelle di più vivo classicismo, e come insieme egli esprima la propria individualità, dimostra al sommo la Maestà del duomo in ogni parte, o negli angioli che circondano la Madonna, nei quali il tipo classicheggiante bizantino è raffinato di grazia, o nelle molte storie della Vita di Cristo, a tergo della grande tavola. Nella Visita al sepolcro, tutta composta sul canone bizantino, il classicismo dell’arte bizantina e il ritmo dell’arte gotica – negli ondeggianti manti – sono uniti in perfetta fusione nel gruppo delle pie donne, cui il senso del pittore da nuova finezza di luci che sfiorano le forme e penetrano il colore, e una sua grazia di atteggiamenti. Dove il Redentore apparisce agli apostoli nel cenacolo, a porte chiuse, la composizione riflette quella di miniature bizantine con Cristo tra santi […]; il Salvatore, simile in volto al Pantocratore bizantino, ne ha la classica nobiltà di gesto, le vesti irradiate d’oro;

negli apostoli, dagli efebi ai vegliardi, ritornano i tipi idealistici che l’arte bizantina aveva elaborato; vi è il comporre arioso che i bizantini avevano perpetuato dall’antico. Ma sugli elementi che concorrono a formarne Parte si libera la personalità del maestro, non soltanto perché li possiede così intimamente da poterli elevare — colore, idealizzazione, schemi iconografici e stilistici — a un nuovo proprio valore, o da poterli modificare in commistione di altri, gotici, bensì per un che di più profondo e intimo che trasfigura le vecchie forme: ed è, nell’aspetto pittorico, una coscienza della forma che non si esprime stancamente attraverso convenzioni tradizionali, ma queste innova;

pur conservandole, e riesce a semplicità e saldezze che qualche volta […1 antecedono il Quattrocento; è una vita interna che muove gli affetti, nei gesti e nello sguardo; è un indicibile senso della grazia, non più languidamente riflessa dall’arte ellenistica, ma sentita con un nuovo potere di trovarla. Però l’opera di Duccio, che per le sue qualità assolute sta in una delle elevate sfere dell’arte, se pur non dove il processo di creazione sia più profondo, inizia per molti aspetti la pittura senese del Trecento, e non può esserne separata.    P Toesca nel l medioevo” 1927.

Nell’atto di assumere, per trasformarlo, il classico linguaggio dell’arte universale cristiana: il linguaggio bizantino, sembrò veramente che Buccio ritrovasse un sapore di grecita nativa. Il campo narrativo d’altri artisti, anche maggiori di lui, era nella leggenda divenuta sostanza di rito, monumento religioso e civile; oppure, come in Giotto, la leggenda si componeva in una sorta di sintesi drammatica. Per un istinto da cui trae origine quanto la sua arte seppe darci di più intenso, Duccio colse, ancora una volta, la leggenda nell’atto stesso del suo formarsi;

in una realtà nella quale elementi e ricordi aulici, di esausta eleganza, si trovan purgati e trasportati in una intonazione primordiale.      E Cecchi, in Trecentisti senesi, 1928

continua

Escludendo le citazioni, facilmente riconoscibili, la riproduzione dei contenuti di questo sito web, anche eseguita soltanto in parte, è vietata.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.