Cosmè Tura: citazioni e critica nei secoli

Cosmè Tura: citazioni e critica nei secoli – La critica nell’arco dei secoli (tratta dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

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Quello che gli studiosi di Storia dell’arte hanno detto di Cosmè Tura:

Cosmè Tura fu discepolo di Galasso Cosmè, che dipinse in S. Domenico di Ferrara una cappella, e gli sportelli che serrano l’organo del Duomo, e molte altre cose, che sono migliori che non furono le pitture di Galasso suo maestro.    G. vasari, Le Vite…, 15682.

Per venire alli maggiori et a quelli che alla Patria hanno dato gran nome, partorì la Patria nostra Cosmè così chiamato pittore antico et eccellente; si conosce il valor suo, e particolarmente dalle opere fatte in S. Giorgio […]. Fu uomo di gran giudizio e di grande ingegno.    A. supbrbi, Apparato degli huomini illustri della città di Ferrara, 1620.

In tutti i suoi lavori ebbe Cosimo una gran diligenza, osservando specialmente le proporzioni delle parti de’ corpi, cosicché la notomia awi interamente tutte le sue parti al loro sito chiaramente dimostrate in tal modo, che se fossero vestiti i corpi con un poco di più morbida carne, e coperti di vestimenti e di pieghe più maestose e non tanto trincie, assai più comparirebbero alla vista di chi li mira, e contempla in essi tutto il vero, ma non tutto il grande e il nobile; al che fare poi si misero i pittori che vennero nei secoli dopo, accordando il vero al verisimile… A poco a poco crescendo gli anni di Cosimo, e conseguentemente illuminandosi vie più nell’intelletto, cominciò a capire, che es­sendo la pittura una imitazione del vero, era necessario per accostarvisi, s’inimorbidisse,^e con tutto l’animo cominciò ad aggiungere a’ suoi lavori il buon colorito, ed un impasto morbido, ma liscio talmente che le sue figure sembrano di pastello o di smalto o imbrunite. Questa particolar maniera egl’ebbe di meglio assai lavorare le figure, e qualunque altra cosa in piccolo che in grande, con certe pieghe e minuzie diligentissime.    G. baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, 1702-22.

Ebbe egli una maniera assai anatomizzata, e con molta diligenza, e finezza eseguì per fino l’ultime cose: al suo piegare si assomigliò molto Alberto Durerò. Di quell’esattezza, che adoperò nel disegno, si servì nel dipingere, e certe opere in piccolo le ultimò con tanta finitezza, che vengono giudicate dipinte a tempera, e coperte da una vernice oleosa.    C. barotti, Pitture e sculture… della città di Ferrara, 1770.

Fu seguace altresì, per essere troppo studioso, il nostro Cosimo di un certo aspro modo di far spiccare i muscoli, e le giunture, che ai giorni nostri ributta, un poco, ma osservando attentamente le sue pitture, se ben secche, piacciono molto; e non si lascia non per tanto d’ammirare in Esso un valent’uomo diligente per maniera nel dipingere, che fino le cose più minute, i paesani, i fabbricati, i bassi rilievi, i ricami, le piccolissime figure non furono lasciate da Lui senza sommo travaglio, ed attenzione, riuscendo ciò tutto finitissimo, benché minuto : e si pena ad intendere come abbia potuto condurre a tanta eleganza, e precisione piccolissime cose… Mise grande studio nei suoi disegni per seguire le traccie del nudo e lasciar trapelare i contorni perfin de’ muscoli sotto le pieghe de’ vestimenti, di cui stranamente cingeva le sue figure in ogni parte, come poi usarono i primi inventori del Bulino : A. Dùrer e A. Aldegrever, affatto ad Esso lui nel vestire e nel muovere le pieghe somiglianti.   C. cittadella, Catalogo istorico de’ pittori e scultori ferraresi, 1782.

Fu pittore di corte a tempo di Borso d’Este […]. Il suo stile è secco ed umile, com’era il costume di quell’età ancor lontana dal vero pastoso e dal vero grande. Le figure sono fasciate sul far mantegnesco; i muscoli molto espressi; le archi­tetture tirate con diligenza ; i bassirilievi con tutto ciò che fa ornato, lavorati d’un gusto il più minuto e il più esatto che possa dirsi.   L. lanzi, Storia pittorica dell’Italia, 1789.

Fu scolare di Galasso : e lo si vide anche dalle sue opere, specialmente pel modo di trattare le pieghe, assai moltiplicate e variate […] in guisa da costituire una specie di manierismo […]. Fu uno dei primi a mostrarsi intelligente nella scienza anatomica, rilevando i muscoli più assai che prima non si pensasse di fare.    C. laderchi, Descrizione della Quadreria Costabili, 1838.

Tura è coerente […]. Egli non aveva necessità di variazione; la magrezza, la secchezza, la meschinità, la sproporzionata grandezza delle teste, delle mani e dei piedi, furono quasi sempre l’inevitabile accompagnamento della sua pittura. Nella maggior parte dei quadri è come se la carne fosse sfiorita per mancanza di nutrimento e si fosse solcata di pieghe dalla profondità insondabile. Vicino alle articolazioni tali pieghe, profondamente delineate, si tendono lungo le ossa che, a loro volta, vengono spieiatamente messe in evidenza; inoltre questa falsata maniera di rappresentazione è conseguita pazientemente, attentamente e con notevole coraggio […]. Nella distribuzione dello spazio, come pure nel raffigurare qualcosa senza il suo ausilio. Tura è preciso e scientifico, mostrandosi al corrente delle leggi geometriche e prospettiche familiari a Piero della Francesca; in qualche tratto della azione egli anticipa, con notevole vigore, i principi della grande arte del secolo XVI ; il suo colore è essenziale, smaltato, di grande profondità, ma senza brillìo o luce alcuna.    G – B. cavalcaselle – J- A. crowe, Hìstory of Painting in north Italy, 1871.

La sua esecuzione troppo studiata, troppo serrata, pecca sovente per un fare secco; i suoi colori, tra i quali dominano le lacche azzurre e il rosso mattone, per durezza […]. La ricerca del carattere in lui prevale su quella della bellezza.   E. muntz, L’età aurea dell’arte italiana, 1895.

I personaggi del Tura sono fatti di selce, orgogliosi e immobili come faraoni, o convulsi di compressa energia come nocchiuti tronchi di ulivo. I loro volti raramente si illuminano di tenerezza, il sorriso rischia di deformarsi in arcaica smorfia. Le mani sono come artigli, esprimono il loro modo di contatto. L’architettura del Tura è sovraccarica e barocca, non somiglia a quella che si vede nei pittori del primo Rinascimento, ma piuttosto ai superbi palazzi costruiti per i Medi e i Persiani, I suoi paesaggi appartengono a un mondo che da secoli non conosce fiore ne filo d’erba, non vi esiste ne terra ne terriccio ne zolla, soltanto e dovunque l’inospitale roccia. Egli non fa posto nemmeno, se non raramente, all’arido corniolo che altri pittori formati a Padova dipingono volentieri.

È un mondo perfettamente coerente. Queste sue creature generate dalla roccia […] fatte di diamante, devono assumere le forme consentite da quella sostanza, forme di cose pietrificate oppure contorte nello sforzo di articolarsi. E quando lo sforzo del movimento produce simili effetti, l’espressione deve raggelarsi in una smorfia prima di poter sbocciare. Nella coerenza e nell’armonia è necessariamente un’intenzione, e l’intenzione del Tura è evidente; realizzare la materia con quasi maniaca ferocia. Non ammette nel suo mondo […] nulla di soffice, nulla di cedevole, nulla di vago. Il suo mondo è l’incudine, la sua percezione il martello, niente deve attutire il fragore del colpo […]. Tura avrebbe potuto firmare, tutta la vita: “L’uomo impazzito per i Valori Tattili”.  B. berenson, North Italian Painters of the Renaissance, 1897 (ed. it. 1936).

Diede nuova vita allo studio della natura con la forza del rilievo e l’esattezza della prospettiva. Spesso ruvido e inflessibile nel suo stile, troppo poco preoccupato […] della purezza delle linee, da alle sue figure forme dure e angolose, ai suoi drappeggi pieghe tormentate e complicate. In compenso, però, possiede un profondo sentimento della grandezza e della nobiltà e sfugge la banalità e le convenzioni.   G. gruyer, L’art ferrarais a l’époque des princes d’Este, 1897.

Cominciò la sua vita artistica guardando le nobili forme di Piero della Francesca e del Mantegna, ma con l’andar degli anni ruppe fede all’ordine del maestro di San Sepolcro e alla classicità del pittore dei Gonzaga. Il ribelle sprezzò le rigide regole dell’architettura rinnovata, le linee diritte dei corpi e dei drappeggiamenti per arrotondarle, frastagliarle, scuoterle con violenza. Tra gl’irti pungenti contorni si profila qualche angelica creatura; ma più si suggella la crudezza della vita. Cercò contrazioni -spasmodiche nei corpi, anche se la bellezza andava perduta. Precorreva così i giorni del barocco, e rappresentava con spieiata realtà i supplizi dei martiri e la ferocia dei manigoldi, come poi si volle dalla Controriforma.    A. venturi, Storia dell’arte italiana, VII, 1914.

Deserti e brulli sono i paesi di Cosine, ritorti come grovigli di radici i panni, tormentato sino al parossismo il contorno dei lineamenti, ma anche nelle ultime opere, quando il pittore, scostandosi dagli esempi di Toscana e del Mantegna, non ascolta più che la propria barbara e indomita energia, il colore s’accende di luci smaltate, e dalle asprezze delle forme trae vibrazione e scintillìo.

Appassionato per tutto ciò che brilla, per gli smalti e i marmi trasparenti, accesi d’interna vampa, Cosmè è il capostipite della tradizione cromatica ferrarese, in tutto il suo flammeo splendore.   A. VENTURI, La pittura del Quattrocento in Emilia, 1931.

Tura modella, a immagine e somiglianzà della propria austerità, i volti torturati, le mani inaridite, le vesti tormentate dei suoi angeli, dei suoi santi, i paesaggi disperati che distendono e drizzano alle loro spalle mari e montagne di ghiaccio, cieli spettrali, colline squallidissime. Così come è, è il genio del luogo.   N. barbantini, La pittura ferrarese nel Rinascimento, m ‘Nuova Antologia”, 1933.

Cosmè è il prodotto di cento incroci di scuole pittoriche, il frutto selezionatissimo di cento razze, alle quali il soffio del Rinascimento fiorentino ha comunicato un’anima nuova. Ma, come tutti i primitivi, Cosmè possedeva quella forza latente che trasforma tutto quello che tocca. Dalle forme astratte di Piero, dalla romanità del Mantegna, dal naturale di Donatello, dalla preziosità dei fiamminghi, Cosmè, il caposcuola della pittura ferrarese del Quattrocento, è salito all’espressione dell’energia e della Vita.         C. padovani, Cosmè Tura, 1933.

Resta il rappresentante più tipico delle forme esotiche, un vero tedesco, che incide i contorni, esaspera le ombre e i contrasti spettrali, di luce, con un artificio di disegno e un gioco magico, che lo distacca completamente dalla placida tra­dizione italiana.   F. filippini, Pittori ferraresi del Rinascimento, 1933.

Egli stabilisce nell’Arte dell’Italia del Nord la fisionomia specifica dell’arte ferrarese. È il primo genio del luogo. Si ammira in lui l’immaginazione che fiorisce sul metodo e che da esso trae una spieiata coerenza, talora un’ossessione. In tale artista è poco luogo a svolgimenti […]. Tutta l’opera è al sommo consistente, ferocemente uguale [.-.]. Una ascendenza medievale lo convince preventivamente che non sia pittura se prima

non si concreti in un materiale raro ed eletto (il misticismo medievale delle pietre e delle gemme); si immagini che cosa ne consegue al contatto dei princìpi organici venuti di Toscana. Sì, potenza di moto negli uomini negli alberi nelle rocce, ma che, nel materiale immaginato dei minerali più incorruttibili, non può che torcersi e serrarsi, quasi in turbini impietrati. Una natura stalagmitica ; un’umanità di smalto e di avorio, con giunture di cristallo […]. Come un astrologo il Tura escogita forme, predilige oggetti che siano simboli pregnanti del suo sogno stilistico. Conchiglie, buccine, perle, tritoni, gracole, draghi, grotte, origlieri sono alcuni di questi suoi stemmi.     R. longhi, Officina ferrarese, 1934.

Egli subito trasferisce in un linguaggio realizzato in una plastica feroce ed esaltata, quasi “stalagmitica”, il suo mondo inferiore supremamente lirico senza mai un’incrinatura di gusto di fronte alle lusinghe dell’arte veneta e di quella toscana.    R. pallucchini, / dipinti della Galleria Estense di Modena, 1945.

Un’arte che suscita una impressione di incomprensibile, disumana chiusura, di gelido isolamen­to, di allucinazione esasperata […]. Opere senza tempo di una solitària pazzia […]. La sua pittura sembra piena di un frastuono di schianti, pare invasa da lacerazioni, da strappi, da ferite e da crudeltà terrificanti, pare torta in un rovello allucinato e stridente, in un arrotarsi barbarico delle più disumane materie, pare artigliata negli eroismi più tragici, eppure tutto questo clamore di grida, codesto urlare e stridere, di personaggi e di materie, si svolge in un silenzio assoluto, in una rarefazione assolutamente gelida. La maggiore impressione di ferocia del Tura è nel silenzio astrale di cedeste sofferenze.   C. savonuzzi, / quattro pannelli del Tura a Ferrara, 1949.

Giova sottolineare come, superando il tardogotico Cosmè creasse un suo stile intorno alla metà del secolo, su fonti pierfrancescane e mantegnesche, ma soprattutto osservando a Padova Donatello. I pittori che si avvicinarono al grande formalista fiorentino, tutti cercarono di realizzare in una materia durevole. Così per primo Andrea del Castagno […]. Così Andrea Mantegna […]. Così il Tura, che vede e realizza nella materia più nobile e durevole del metallo, ammirato nei bronzi donatelliani; e che insieme volge verso il fervore drammatico anzi verso modi espressionistici che caratterizzeranno pure (dopo il 1450) la tarda operosità di Donatelle e quella conclusiva del Castagno. Dai quali per altro Cosmè rimane ben distinto per il suo linguaggio emiliano che già era espresso con terrestre e potente esuberanza nel romanico e nel gotico linguaggio disciplinato ora nel nostro da una nuova grammatica e da una nuova «m*»—

Proprio questo vigoroso linguaggio ha fatto giudicare dal Berenson “incolto e provincialmente chiuso” il grande pittore che possedeva invece una ben salda preparazione […]. La preparazione e il linguaggio sicuro del Tura, salvo qualche transeunte connessione con Giambellino, permisero al nostro di restare sempre conseguente a se stesso. Anzi con la sua arte e con la sua piena coerenza che contribuisce a lumeggiare il di lui abito morale, egli dominò per mezzo secolo l’ambiente ferrarese.    M. salmi, Cosmè Tura, 1957.

[…] Per lui, come per tutti i grandi manieristi, la nobiltà non escludeva in alcun modo la coscienza del carattere, grottesco o futile, della vita. Le antimonio bellezza-bruttezza, maestà-leggerezza, misticismo-erotismo, non avevano, senza dubbio, alcun senso per lui. L’espressione appassionata, che certi pittori del ventesimo secolo, surrealisti o no, ricercano, non è che il lontano prolungamento delle libertà prese da un Cosimo Tura in pieno quindicesimo secolo.   A. jouffroy, Les ducs d’Este au XV siecle ou le genie du Manierismo, 1959.

Bisogna riconoscere che Tura ha ricevuto una educazione squarcionesca, e si sa che dalla prima all’ultima opera è rimasto fedele al manierismo squarcionesco di cui può essere considerato il maggior rappresentante. Questo manierismo — per metà tardogotico, per metà rinascimentale — raggiunge in lui l’espressione più completa e in pari tempo più ardita, che conduce senza mediazione al manierismo cinquecentesco. Tura interpreta questo stile con un’eleganza, un virtuosismo, una profondità spirituale, un dinamismo e un’espressività che lo distinguono da tutti i pittori della stessa tendenza.    E. ruhmer, Cosmé Tura, in “Enciclopedia Universale dell’Arte”, XIV, 1966

II linguaggio del Tura non si distingue soltanto per la coerenza e l’originalità, ma per la propria sostanza che potremmo definire esistenziale […]. Il bilanciarsi dei gesti, degli spazi, dei colori, curato con la stessa eccezionale attenzione con la quale è tenuto in pugno il soggetto della rappresentazione e la tecnica pittorica, è teso totalmente verso l’armonia […]. Il movimento non è quasi mai completamente libero, ma rinchiuso su se stesso, interiorizzato nel profilo della forma, come in un continuo ritorno doloroso e circolare alla corporeità delle apparenze.    E. guidoni – A. marino, Cosmus pictor, 1969.

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