Citazioni e critica su Cimabue

Citazioni e critica su Cimabue (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

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Quello che ha detto la critica degli studiosi di Storia dell’arte di Cimabue:

  O vanagloria dell’umane posse, com’ poco verde in su la cima dura,

se non è giunta dall’etati grosse!

Credette Cimabue nella pittura

tener lo campo; ed ora ha Giotto il grido

sa che la fama di colui oscura.

Così ha tolto l’uno all’altro Guido la gloria della lingua; e fors’e è nato chi l’un e l’altro caccerà di nido.   dante alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, I, 91-99, 1310 -15 circa

Qui narra per esempio, e dice, che come Oderigi nel miniare,

così Cimabue nel dipingere, credette essere nominato per lo miglior pittore del mondo, e il suo credere venne tosto meno, peroché sopravvenne Giotto, tale che a colui ha tolto la fama; e dicesi ora pure di lui. Fu Cimabue nella città di Firenze pintore nel tempo dello Autore, e molto nobile, de più che uomo sapesse; e con questo fu sì arrogante, e sì sdegnoso, che se per alcuno gli fosse a sua opera posto alcuno difetto, o egli da sé l’avesse veduto (che, come accade alcuna volta, l’artefice pecca per difetto della materia in ch’adopera, o per mancamento che è nello strumento, con che lawica) immantenente quella cosa disertava, fosse cara quanto si volesse.               anonimo fiorentino (Andrea Lancia?), l’ottimo commento della ‘Divina Commedia’ (sec. XIV), I, 1828.

Nella città di Firenze, che sempre di nuovi uomeni è stata doviziosa, furono già certi dipintori e altri maestri, li quali essendo a un luogo fuori della città, che si chiama San Miniato a Monte, per alcuna dipintura e lavorio, che alla chiesa si doveva fare; quando ebbono desinato con l’Abate, e ben pasciuti e bene avvinazzati, conunciorono a questionare; e fra l’altre questione mosse uno, ch’avea nome l’Orcagna, il quale fu capo maestro dell’oratorio nobile di Nostra Donna d’Orto San Michele : Quale fu il maggior maestro di dipignere. che altro, che sia stato da Giotto in fuori? Chi dicea che fu Cimabue, chi Stefano, chi Bernardo (Daddi), chi Buffalmacco, e chi uno e chi un altro. Taddeo Gaddi, che era nella Brigata, disse:

“Per certo assai valenti dipintori sono stati, e che hanno dipinto per forma, ch’è impossibile a natura umana poterlo fare: ma quest’arte è «cauta e viene mancando tutto dì“.   F. sacchetti, Trecentonovelle, Novella 136, 1392-97 e

[…] E fra questi per primo Giovanni, soprannominato Cimabue, quell’arte della pittura, ancora antiquata e, per l’insipienza dei pittori, puerilmente staccata dalla somiglianza della natura, cominciò con perizia e ingegno a riportarla alla natura, quando ne era ormai bizzarramente lontana. Si sa poi che, prima di lui, la pittura latina e greca era rimasta per molti secoli sotto il dominio dell’assoluta imperizia, come mostrano chiaramente le figure e le immagini che adornano, in tavole e affreschi, le chiese. Dopo di lui essendo già stata aperta la via, Giotto, che non solo è da paragonare agli antichi pittori per fama, ma da preporre loro per l’abilità dell’ingegno, riportò alla primitiva dignità e fama la pittura.   F. villani, De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus, 1405 C.

Cominciò l’arte della pittura a sormontare in Etruria. In una villa allato alla città di Firenze, la quale si chiamava Vespignano, nacque un fanciullo di mirabile ingegno, il quale si ritraeva del naturale una pecora. In su passando Cimabue pittore per la strada a Bologna vide il fanciullo sedente in terra e disegnava in su una lastra una pecora. Prese grandissima ammirazione del fanciullo, essendo di sì piccola età fare tanto bene. Domandò, veggendo aver l’arte da natura, il fanciullo come egli aveva nome. Rispose e disse. — Per nome io son chiamato Giotto: il mio padre a nome Bondoni e sta in questa casa che è appresso. — disse. Cimabue andò con Giotto al padre : aveva bellissima presenza : chiese al padre il fanciullo : il padre era poverissimo. Concedettegli il fanciullo e Cimabue menò seco Giotto e fu discepolo di Cimabue : tenea la maniera greca, in quella maniera ebbe in Etruria grandissima fama: fecesi Giotto grande nell’arte della pittura.    L. ghiberti, I commentari, II, 1455.

Giovanni pittore, per cognome detto Cimabue, fu circha il 1300 e nelli sua tempi per le sue rare virtù era in gran veneratione. E esso tu, che ritrovò i lineamenti naturali e la vera proportione, da Greci chiamata simetria, et fece le fiure di varii gesti e teneva nell’opere sue la maniera Grega. Hebbe per compagno Gaddo Gaddo et per discepolo Giotto.

Et tra l’altre sue opere si vede in Firenze una Nostra Donna grande in tavola nella chiesa di Santa Maria Novella acanto alla Cappella de Rucellaj. E nel primo chiostro de frati di Santo Spirito fece certe historie non molto grandi. In Pisa nella chiesa di San Francesco è di sua mano in tavola di­pinto un san Francesco.

A ‘Scesj [Assisi] nella chiesa di Santo Francesco dipinse, che dipoi da Giotto fu seguitata tale opera.

In Empoli nella pieve operò anchora.    anonimo fiorentino, Codice Magliabechiano, 1537- 42 c. (ed. Frey, 1892).

Ma per tornare a Cimabue, oscurò Giotto veramente la fama di lui, non altrimenti che un lume grande faccia lo splendore d’un molto minore; perciò che sebbene fu Cimabue quasi prima cagione della rinnovazione dell’arte della pittura, Giotto nondimeno, suo creato, mosso da lodevole ambizione et aiutato dal cielo e dalla natura, fu quegli che andando più alto col pensiero, aperse la porta della verità a coloro che l’hanno poi ridotta a quella perfezzione e grandezza, in che la veggiamo al secolo nostro […].    G. vasari, Le Vite, 1568.

[…] E così, innanzi che Cimabue e Giotto fussero al mondo, si dipigneva nel mondo, ma Cimabue scoperse e Giotto firn di trovare una così nuova e bella e non più dagli uomini d’allora veduta maniera, che le pitture usate fino a quel dì parvero ch’ogni altra cosa fossero che pitture […].    F. baldinucci, Notizie de’ professori del disegno. I, 1681.

Vasari attribuisce a Cimabue la maggior parte delle pitture della Chiesa Superiore di Assisi; ma basta avere una piccola idea del disegno e della maniera di lui e di Giotto suo scolaro per avvedersi del contrario; si distinguono le maniere progressive di Giunta, di Cimabue, di Giotto, di Giottino, che vi dipinsero. Cimabue è quello che vi fa peggior comparsa. Regna nelle sue pitture una stucchevole monotonia […].   G. della valle, Lettere senesi di un socio dell’Accademia di Fossano sopra le Belle Arti, I, 1782.

Comunque siasi, Giovanni su l’esempio di altr’italiani del suo secolo vinse la greca educazione, la quale pare che fosse di andarsi l’un l’altro imitando, senza aggiugner mai nulla alla pratica de’ maestri. Consultò la natura; corresse in parte il rettilineo del disegno; animò le teste, piegò i panni, collocò le figure molto più artificiosamente de’ Greci. Non era il suo talento per cose gentili : le sue Madonne non han bellezza; i suoi Angeli in un medesimo quadro son tutti della stessa forma. Fiero como il secolo, in cui viveva, riuscì egregiamente nelle teste degli uomini di carattere, e specialmente de’ vecchj imprimendo loro un non so che di forte, e di sublime, che i moderni han potuto portare poco più oltre. Vasto e macchinoso nelle idee diede esempi di grand’istorie, e l’espresse in grandi proporzioni. Le due Madonne in grandi tavole, che ne ha Firenze,  l’una presso i Domenicani, con alcuni busti di santi nel grado; l’altra in S. Trinità, con quei sembianti di Profeti, sì grandiosi, non danno idea del suo stile come le pitture a fresco nella Chiesa Superiore di Assisi, ove comparisce ammirevole per que’ tempi. In quelle sue istorie del Vecchio e Nuovo Testamento, che ci rimangono (perciocché non poche ne ha scancellate, o almen guaste il tempo) egli apparisce un rozzo Ennio, che fin dall’abbozzare l’epica in Roma da lumi d’ingegno da non dispiacere a un Virgilio.   L. lanzi, Storia pittorica della Italia, I, 1809.

L’ingegno, la maestria di Cimabue, non potranno mai essere tenuti in troppo alto prestigio; ma nessuna Madonna di sua mano avrebbe mai fatto esultare l’anima dell’Italia, se durante mille anni, precedenti, più d’un Greco e più d’un Goto d’ignoto nome non avrebbe mai fatto esultare l’anima dell’Italia, se durante mille anni, nell’amore di lei. […]

Conciliare il dramma con il sogno era il compito, relativamente facile, di Cimabue; ma non altrettanto facile era conciliare il buon senso con la follia (sempre adoperando con molta reverenza tale parola). Non deve perciò recar meraviglia che colui, il quale succedendo a Cimabue vi è riuscito, abbia un gran nome nel mondo.     J. ruskin, Mornings in Florence, 1876 (ed. it. 1908).

Non a caso i tre altari della Chiesa Superiore sono consacrati ai santi Maria, Pietro e Michele, nei confronti dei quali san Francesco nutriva una devozione particolare. Anzi la raffigurazione di san Michele e le ‘storie’ apocalittiche a lui riferentisi assumono valore simbolico come allusive a san Francesco, in cui si vede realizzata la profezia del settimo angelo dell’Apocalisse. Gli affreschi alludono quindi all’avvento di una nuova epoca, alla liberazione della Chiesa, alla lotta dei tre ordini francescani contro il drago dell’eresia. Ma a raffigurare degnamente tali eventi doveva essere il pittore più importante di quel secolo cui Francesco aveva impresso il suo segno, e cioè Cimabue. A lui e a nessun altro sono da attribuire tutti gli affreschi discussi. Già nella prima Crocifissione incontriamo una grande personalità di creatore e innovatore che a mano a mano, nel corso del lavoro, si è sviluppata in modo sempre più espressivo e pregnante trovando la più alta perfezione nella Crocifissione del transetto meridionale. Questo serve a porre in chiaro in modo inequivocabile la differenza fra originalità dell’invenzione e autonomia della sensibilità artistica. Le scene della vita di Pietro e di Maria sono generalmente raffigurazioni che ripetono schemi iconografici tradizionali, ma trattate con nuovo vigore. Nell’insieme sembra che non vi sia nulla o quasi di nuovo, ma da ogni singola figura, da ogni movimento si sprigiona un’energia compositiva prima sconosciuta, in un cosciente anelito di monumentalità. Non si tratta più di figure che avanzano timidamente, prive di forze interiore e meccanicamente tipizzate, bensì di esseri umani consapevoli della loro forza e della loro intima potenzialità.   H. thode, Franz von Assisi …… der Renaissance in Italien, 1885.

Questa abilità selettiva nella scelta dei modelli si palesa in artisti particolarmente dotati come Nicola Pisano e Cimabue; ma in Cimabue interviene un altro fattore di rilievo : la dimensione della personalità umana. Raramente, anche pittori a noi noti o di nome o per l’ingente produzione artistica, quali ad esempio Giunta Pisano, Guido da Siena, Margaritone d’Arezzo, Coppo di Marcovaldo si distinsero per una loro spiccata personalità. Per quanto riguarda l’arte paleo-cristiana, l’arte musiva romana, l’arte bizantina e siculo-normanna non nasce in noi il desiderio di conoscere l’identità dei singoli artisti alle cui mani si debbono tali opere, essendo esse carenti di un’impronta personale e interpretando soltanto gli orientamenti artistici del tempo e del genere trattato. Cimabue è il primo ad assumere una configurazione propria che stimola lo spettatore, interessandolo alle vicende personali del maestro. E questo perché è il primo pittore che ha saputo conferire alle figure da lui plasmate un sapore terreno dando loro pensieri e sentimenti autonomi.   M. I. zimmermann, Giotto und die Kunst Italiens im Mitlelalter, 1899.

Tutto ciò che noi sappiamo di Cenni dei Pepi è questo: che egli era un ragguardevole artista fiorentino, soprannominato Cimabue, fiorito nella seconda metà del secolo XIII e nei primi anni del seguente; che egli aveva eseguito un mosaico per la Cattedrale di Pisa e una pala d’altare nella stessa città; l’una delle quali è stata dispersa, mentre l’altro fu interamente rinnovato.   L. douglas, The Reni Cimabue, m “Nineteenth Century”, 1903.

I risultati delle nostre ricerche sulla patria artistica del grande Maestro d’Assisi e sulla sua collocazione nella storia della pittura italiana sono dunque i seguenti : le sue radici affondano nella vita artistica fiorentina della seconda metà del XIII secolo; la sua arte è strettamente connessa attraverso vari canali allo sviluppo artistico di Roma; la sua attività in Assisi cade intorno al 1270 (ad ogni modo non molto prima) e negli anni seguenti egli avvia, in quanto antesignano, quel processo innovatore dell’ultima generazione del Duecento, quell’evoluzione artistica che funge da premessa all’opera innovatrice di Giotto.   A. aubert, Die malerische Dekoration der S. Francesco Kirche in Assisi, Ein Beitrag zur Losung der Cimabue Frage, 1907

A destra sono dipinti i fatti della vita di San Pietro, e si discernono le scene della Guarigione dello storpio alla porta del tempio di Gerusalemme, la Caduta di Simon Mago, la Crocefissione dell’Apostolo. Infine la Crocefissione di Gesù chiude pure il ciclo delle rappresentazioni di questo braccio destro, secondo lo Zimmermann, d’un artista più antico di Cimabue, ancora informato ai canoni dell’arte precedente e che dovette adattarsi alla scelta ed alla disposizione dei soggetti secondo il pensiero di Cimabue. Eppure la mano del maestro si riconosce quasi da per tutto nel braccio destro della crociera; vedansi, ad esempio, alcune teste […], che sembrano ricavate da un bassorilievo in bronzo. Probabilmente egli ebbe un aiuto, che usò in specie nelle decorazioni della galleria superiore, in cui mutano le vecchie forme delle archeggiature, là terminate a cuspidi allungate con gugliette laterali. Questo sopravvenire o accentuarsi del gotico segna di per sé una forma più nuova del resto, onde, meglio che a un vecchio artista sopraffatto dal giovane Cimabue, si può pensare a un giovane pittore aiuto del maestro fiorentino, che si rivela tutto ispirato alle forme romane nel Terebinto neroniano a nicchioni e nelle grandi sagome delle architetture, dipinte nei fondi dei quadri con la vita di San Pietro. Per lui è la rinascita dell’antico nella pittura, come per Niccola d’Apulia nella scultura. Così Cimabue e il Cavallini suo compagno lavorano di conserva, per annodare le loro giovani forze alla tradizione secolare e condurre l’arte a forma italiana.    A. venturi, Storia dell’arte italiana, V, 1907.

[.,.] Il Rintelen giunge a una interpretazione molto artificiosa del famoso passo del Purgatorio (e. XI). Egli fa un’equazione : Guinicelli – Cavalcanti = Cimabue – Giotto e ne inferisce che Cimabue è collocato in una schiera di uomini equivalenti, tra cui si trova lo stesso Cavalcanti, l’amico di Dante e il mistagogo dello “sdì novo”; i due miniatori, meno importanti e citati evidentemente a mo’ di esempio, vengono quindi lasciati prudentemente sulla soglia. Il Rintelen ritorna persino all’antica opinione naturalmente non confutabile, ma difficilmente dimostrabile, che Cimabue possa esser stato il maestro di Giotto, perché Dante sarebbe nominato indirettamente accanto ai suoi due “maestri”, Guinicelli e Cavalcanti, ciò che neppure è sicuro ed è anche assai combattuto dagli interpreti moderni. Proprio lo stesso hanno scoperto nel passo di Dante gli antichi scoliasti; forse inconsapevolmente; ma questi hanno anche fatto, allo stesso modo, Franco scolaro di Oderisi! Che Dante dunque ponga su uno stesso piano Cimabue e il Guinicelli da lui tanto stimato, è un’ipotesi arbitraria e indimostrabile, che ci obbligherebbe anche a considerare Odorisi come il terzo della serie. In tutto il passo, che ha soltanto un significato morale, corrispondente all’ambiente, non c’è alcuna vera intenzione di apprezzamento. Nessuno vorrà dubitare che Cimabue fosse ancora per Dante una figura reale; ma non possiamo assolutamente sapere in qual grado e se veramente in un grado superiore ai due miniatori di Gubbio e di Bologna, che eran pure suoi contemporanei; e tutte le altre son parole vane. Già per i primi commentatori di Dante, e soprattutto per quelli che vennero poi, Cimabue non era nulla di più che un nome, su cui la sapienza degli scoliasti andava accumulando tutto ciò che pareva plausibile; troppo è evidente il processo di formazione della leggenda, per poter supporre diversamente. Allo stesso modo intomo ai due miniatori è nato un intreccio di leggende che nessuno oggi prende sul serio. Di questo soltanto si tratta; dal Cimabue di Dante, a voler esser sinceri, nessuna via conduce più al Cimabue che noi oggi conosciamo, soltanto da un’opera restaurata di seconda mano. il mosaico di Pisa, e da un paio di magre notizie documentarie, quantunque questa via possa essere stata ancora accessibile a Dante; e neppure conduce agli epigoni del secolo XVI, di cui solo il Billi si mette a citare delle opere che erano rimaste ancora ignote al principale testimone del Trecento, il Ghiberti! Ne meno ci deve impensierire il fatto che a Cimabue, la cui fama è dovuta soltanto a Dante, troviamo un parallelo perfetto in Policleto, la cui fama eccezionale nel Rinascimento, dovuta anch’essa alla menzione che di lui si fa nella Commedia, non ha alcuna rispondenza nella tradizione antica.    J. schlosser magnino, Die Kunslliteratur, 1924 (ed. it. 1964.

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