Citazioni e critica a Tintoretto

Citazioni su Tintoretto (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

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Il pensiero critico degli studiosi di Storia dell’arte su Tintoretto:

Riscoprire il divino nell’umano, l’eternità nell’attimo, il miracolo nella vita quotidiana, e, nello stesso tempo, questo ritrovare, sotto lo sfarzo della civiltà e l’incanto della bellezza …..

Riscoprire il divino nell’umano, l’eternità nell’attimo, il miracolo nella vita quotidiana, e, nello stesso tempo, questo ritrovare, sotto lo sfarzo della civiltà e l’incanto della bellezza, gli immutabili terrori e le implacabili necessità dell’uomo, la morte, l’infermità, la fame, dai quali terrori e necessità solo la religione e la fede ci strappano e ci salvano: questo è il proprio dei poeti e degli apostoli, che è dire in parole diverse la stessa cosa; questo fu il proprio, nella storia dell’arte veneziana, di Jacopo Tintoretto. U. (Ojetti, Più vivi dei vivi, 1931)

… Vedremo poi come tutto il processo dell’arte tintorettesca si possa configurare in un’oscillazione fra i due poli; del tonalismo, quando l’accento è più posato sull’aspetto coloristico e del luminismo quando l’accento stilistico cade sul fattore di luce e d’ombra; passando attraverso a momenti di plasticismo chiaroscurale. Non senza qualche deviazione, per variate suggestioni. Nel Miracolo dello schiavo siamo al momento dell’equilibrio: qualità e quantità, colore e forma sono non solo intimamente fusi implicandosi a vicenda ma anche in perfetta parità, e trovano la loro unitaria attuazione nel mezzo tecnico, magnificamente adeguato, della pennellata costruttiva; la quale stendendo il piano fondamento di larghe macchie, ora strizzando la pasta, ora filando il grumo di colore secondo l’accenno di un profilo muscolare, di un avvolgimento di pieghe, di un arruffìo di chioma o di frasca, crea tutta una trama di suggerimenti plastici che bastano alla integrale e chiara realizzazione della forma, di una freschezza inaudita. Il gusto di questa traduzione interpretazione plastico cromatica della materia visibile è saporosissimo nella sua ricchezza e varietà. Si veda la sodezza pastosa dei primi piani in confronto della levità liquida degli sfondi; quello stupendo episodio del gruppo centrale, toccato da un alito d’ombra che fa i corpi olivastri contro quella piazza, in fondo, che sembra disciogliersi in luce; la succulenza dei bianchi e dei rossi dal vinato al rosa spento; la sonorità calda dei toni ora pieni ora smorzati. Si noti l’arditezza degli scorci, la esatta compaginazione dei volumi nel complicato intreccio e contrapposizione dei gruppi figurali, la sobria ambientazione che ci da l’impressione del grandioso pur senza l’eccesso di dilatazione scenografica che c’era un poco nella Lavanda. Ma nell’ammirazione di tutte queste abilità pittoriche non intende esaurirsi la nostra ricerca dei valori di questo capolavoro. Che un colpo d’ala inventivo superbo è quel volo a piombo del santo, presente a noi spettatori ma invisibile a tutti gli attori della scena; ch’è una efficacissima espressione del ‘miracoloso’ e crea veramente il dramma del prodigio, nel cerchio di attonito stupore, che si allarga nel quadro e sembra chiudersi dietro lo spettatore, unificando il vario tumulto di passioni che agitano i partecipi della scena. E soprattutto vi è una serietà morale, che impegna nell’opera la pienezza di sentimento umano dell’artista; pienezza di sentimento che si risolve in simpatia commossa per il fatto rappresentato in sé, non già per l’uno o per l’altro degli attori, e si converte in analoga onda di simpatia nello spettatore. Sentimento che, pienamente espresso, diventa la spontaneità fresca, immediata, sicura, di tutte le figure e la loro necessaria convenienza fra loro e con l’ambiente. L. Coletti, Tintoretto, 1940.

A Venezia intanto, proprio da quando Tiziano risolveva il maggiore contrasto della cultura figurativa italiana nel suo dramma interno ed inimitabile, già infuriava il Tintoretto ‘ praticon de man”, come lo chiamò una volta per sempre, e senza già intendere diminuirlo, il Boschini. Perché mai il nome dei Tintoretto sia stato rilanciato violentemente, circa ottant’anni fa, dal romantico Ruskin, insieme con quelli del Carpaccio, del Bellini e del Turner, varrebbe la pena di spiegare. Forse perché, in romanticismo, realizzazioni e intenzioni stanno sullo stesso piano. Ne, d’allora in poi, c’è più stata sosta; direi anzi che, negli ultimi cinquant’anni, pochi pittori furono più adulati del Tintoretto, anche se .i moventi non erano più gli stessi che nel Ruskin; almeno fino agli anni recenti quando risorgono nel più frettoloso irrazionalismo. Alquanto prima è più probabile che, specialmente da noi, si ammirasse nel Tintoretto più la bravura che la fantasia; che è sempre un buon pretesto per far passare l’accademia sotto specie di furia. Era, quello, un titanismo tecnico che garbava al ventennio trascorso. L’Ojetti esortava i giovani a imparar dal Tintoretto come si aggrediscano le grandi gesta decorative. C’era infatti bisogno di un gran capitano d’industria pittorica, si andava cercando, per la pittura, un Piacentini e il Tintoretto ne offriva un modello anche troppo elevato. … Non perciò vorrò io negare al Tintoretto una natura geniale, colma in principio di idee bellissime per favole drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci ed ombre rapidamente viranti. Egli si serviva all’uopo di un teatro di manichini su cui provare quei suoi canovacci luministici. Niente di male in questo. Il male stava nella struttura dei manichini e nel previsto meccanismo dell’azione che ne sprizzava. Quando guardo e, sospirando, ammiro, rifacendomi all’idea, per dir così, prefigurale, il Cristo dinnami a Filato, il Mosè che fa scaturire il fonte dalla roccia o la Santa Maria Egiziaca nel paesaggio, non posso trattenermi dall’immaginare subito che cosa avrebbero sortito cedesti motivi nelle mani di un Greco o di un Rembrandt. Com’è, insomma, che il Tintoretto resta al canovaccio e pare qualche volta un Vasari o uno Zuccari di genio e qualche altra un Greco senz’anima?   Ch’egli si fosse impegnato in un contrasto simile a quello che Tiziano andava consumando verso il ‘4045, non è dubbio; il triste è che lo aggredì programmaticamente e lo risolse per pratica bravura. Escogitare un meccanismo esecutivo che accordasse in una dialettica apparente i due poli della maniera e del colore era proprio un distruggere la sostanza passionale di quelle due tendenze.  R Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, 1946

… la questione dell’atteggiamento del Tintoretto verso la realtà. Fanatici del classicismo come Jacob Burckhardt non si stancano mai di stigmatizzare il suo naturalismo; perfino uno scrittore tosi imbevuto del genio del Tintoretto come Ruskin talora si sente sconvolto dal realismo di molti suoi dipinti. … L’ardimento realistico del Tintoretto spaventò alcuni e vinse l’ammirazione di altri, come fecero molti analoghi particolari quali il corpo scorciato nel Ritrovamento delle spoglie di san Marco [Milano, Brera], i guerrieri e i servi nella Crocifissione di San Rocco [Venezia], i malati e i prigionieri che trasformano i due episodi della vita del santo che placò la peste in scene da ospedale o carcere. Lo scopo di tale passione per i particolari naturalistici fu la resa di un sentimento umano; ma mentre questa scoperta della realtà determina il nucleo sostanziale nelle opere di pittori anteriori e successivi maestri — Konrad Witz e Masaccio, Caravaggio o Ribera —. col Tintoretto essa serve semplicemente ad accentuare l’elemento irreale. È la straordinaria efficacia dei particolari più intensi — a creare la premessa per l’evento spirituale raffigurato: la fedeltà lotoerafica nella resa delle suppellettili e l’artificio virtuosistico dei corpi in prospettiva servono a intensificare il significato del tema. ‘Storie’ della Passione o della vita dei santi tendono alla funzione più alta non mediante composizioni attentamente equilibrate, oppure per via d’una esaltazione idealistica dei tipi umani o della pensosa pregnanza degli oggetti naturali, ma per una sommissione al senso più profondo del tema e alla sua deliberata spiritualizzazione. … Ciò che nelle mani di più vecchi artisti del Rinascimento era diventata una esposizione di eventi storici, col Tintoretto diventa presentazione di un evento che ha luogo nel regno dello Spinto.    H. Tietze, Timorato. The Paintings and Drawings, 1948

Con il Tintoretto la natura è stata travolta dal turbine impetuoso del suo genio e ricreata per servire alla sua inventiva colossale. Il fondo della Fuga in Egitto [Venezia, Scuola di San Rocco] è un dramma di luci e ombre che entusiasma quanto un Altdorfer; i paesaggi deserti in cui siedono le due Marie [Venezia, Scuola di San Rocco] sono costruiti con forme intricate, contorte, che comunicano appieno la sua energia creativa attraverso la rappresentazione della vita organica. Smorziamo questa corrente di energia, lasciamo soltanto i gesti nervosi, e avremo quei pittoreschi paesaggisti minori — Mola, Testa e Magnasco — le cui caverne, anfratti e irte spiagge sono considerati un diversivo in un’epoca di decadimento.      K. Clark:  Landscape into Art, 1949

La ritrattistica tintorettiana è un documento quanto mai importante per comprendere l’accento particolare della sua arte: anche in quei ritratti, che veramente gli spettano, il tono fantastico ed espressionistico’ della sua pittura si va caratterizzando con sempre maggiore coscienza. Nell’affrontare il modello, facendone un pretesto per meglio definire l’intimità romantica del suo sentimento, il Tintoretto mostra la coerenza della sua espressione artistica. I personaggi tintorettiani non respirano più la serenità intcriore di quelli tizianeschi: non sono più indifferenti. Sembrano interrogare lo spettatore, sollecitandone un colloquio improvviso nel quale riversare la loro inquietudine, il loro segreto affanno. Di fronte ai ritratti di Tiziano, dove il personaggio si chiude in un’aulica ed impenetrabile dignità, i ritratti del Tintoretto turbano di più, anche se meno oggettivi e maestosi, sgusciando fuori dell’ombra per via di luci improvvise e misteriose. Dal punto di vista psicologico il Tintoretto sembra piuttosto rifarsi alla sensibilità lottesca, così nervosa e instabile: mentre linguisticamente è indubbio che egli ha sentito il fascino delle impaginazioni ritrattistiche tizianesche. Ma non è improbabile che abbia ammirato anche modelli manieristici, per esempio di Francesco Salviati, cogliendo quegli elementi di eleganza pungente e decorativa che mancavano ai ritratti di Tiziano. … i tentativi, le curosità, le esperienze, i momenti di crisi, i dubbi, le incertezze, ed i primi sfolgoranti successi, cioè tutti quegli oscillamenti che caratterizzano la formazione di un artista, nel caso del Tintoretto sono contenuti in una dozzina d’anni: sembreranno forse troppi, rispetto ad altri artisti il cui destino figurativo pare segnato fin dagli inizi. Ma si pensi del resto alla novità, in un certo senso rivoluzionaria, che Parte tintorettiana è venuta significando nel quadro della pittura veneziana del Cinquecento: e allora si misurerà tutto lo sforzo che è stato necessario all’artista per raggiungere una così nuova posizione di gusto, rinnovando ex imis non solo lo strumento linguistico della tradizione veneziana, ma facendone un mezzo docile e personalizzato per l’estrinsecazione d’una fantasia visionaria ed espressionistica: in ultima analisi cambiando il corso di quella stessa tradizione. … non si possono avere più dubbi sull’efficacia della cultura manieristica nei riguardi della formazione tintorettiana : il veneziano accettò senza riserve tale gusto, se ne imbevve profondamente, ma nello stesso tempo reagì, definendo così la propria personalità, ed imprimendo cioè a quella cultura un contenuto morale ed una violenza di sentimento che le erano davvero sconosciute. La storia quindi della prima attività tintorettiana è in funzione di quella cultura: direi che una illumina l’altra: ma mentre la cultura manieristica andrà disseccandosi nei minori, inaridendosi cioè in paradigmi e formule, essa verrà esaltata da chi, come il Tintoretto, il Veronese od il Greco, sarà in grado di vivificare, direi far esplodere, il proprio sentimento, la propria personalità creatrice. R. Pallucchini, La giovinezza del Tintoretto, 1950

Tutti i migliori dipinti del Tintoretto (ci si riferisce particolarmente all’ultimo periodo, ai cicli della Scuola di San Rocco e della chiesa di San Giorgio Maggiore) sono penetrati da una grande idea: tutti derivano da un autentico amore per l’uomo, dai tragici problemi della lotta per la vita, dai fondamenti più profondi di una cosciente visione del mondo. L’opera del Tintoretto si distingue per l’immensa varietà di temi, per l’elevato diapason degli interessi, per l’ampiezza mai vista prima di allora dei procedimenti stilistici … e tuttavia, nonostante tutta la ricchezza e la multiformità che si impone allo spirito (nessuno infatti si trova a disporre altrettanto frequentemente e così liberamente di spazi immensi e innumerevoli moltitudini popolari), l’opera del Tintoretto sembra più unilaterale e contraddittoria (in quell’associare slanci luminosi e tragiche fratture), anzi direi di più, sembra soggettivamente limitata più dell’opera di altri grandi maestri della pittura europea.  … l’ampio slancio della vita, il potente slancio della visione si fondono inseparabilmente nel Tintoretto con un senso della decorazione, con il gioco ornamentale alla superficie del quadro. Si potrebbe dire persino che nell’opera del Tintoretto 1”arabesco’ è organicamente legato alla sostanza stessa della sua concezione del mondo, della sua fantasia immaginifica. Nel contempo però sarebbe un grave errore valutare l’arte del Tintoretto soltanto dal lato dell’improvvisazione, della sbrigliatezza del pennello, d’un improvviso impulso creativo. Nonostante tutto il dinamismo della fantasia e dei procedimenti pittorici, l’arte del Tintoretto non contiene alcun elemento di improvvisazione, non conosce il caso e l’arbitrio, in essa non vi è nulla di provvisorio, di fallace e di mutevole (come è tipico invece per la pittura barocca): il potente intelletto di questo maestro e il suo sorprendente senso del ritmo paiono sempre sottomettere il caos travolgente delle enormi tele all’unità dello schema compositivo. S. Vipper, Tintoretto e il suo tempo, “Rassegna sovietica” 1950-51

II suo impegno consiste nel foggiare strumenti espressivi di veemenza senza precedenti, sulla base di tre forme di manierismo che per la prima volta sembrano rivelare le loro prodigiose risorse: la figura lunga e sinuosa che, invece di dissolverai in un’atmosfera dorata, spesso riacquista il suo slancio plastico; la composizione obliqua, ricca di scorci; e la luce che scolora e opera metamorfosi, come un riflettore nelle mani di un regista, su un universo nervoso, vibrante, infinitamente patetico.  A. Chastel, L’art italien, 1956

L’arte del Tintoretto è considerata, oggi, soprattutto come una ripica espressione del movimento della Controriforma. Non si dovrebbe però trascurare il fatto che la Controriforma ha avuto a Venezia un ruolo meno importante che nelle altre città dell’Italia centrale. Nella Serenissima la Chiesa non costituiva una forza nella vita politica ; essa rimase subordinata alla ragion di Stato. Il clero a Venezia era escluso dai Consigli e dagli Uffici. La Controriforma si limitò, in quella città, alla difesa ‘della fede cattolica e alla riforma interna della Chiesa; fu liberale e tollerante. Un uomo di profonda inclinazione religiosa come il Tintoretto poteva salutare in questa forma attenuata della Controriforma un rinnovamento positivo della fede. La Controriforma, però, non pare esser stata la diretta fonte della fervida devozione dell’artista. La sua formazione religiosa sembra aver avuto origine nella superstizione miracolistica del popolo minuto. Figlio di un tintore, il Tintoretto divideva col popolino di Venezia la fede nei miracoli della redenzione e della guarigione. Anche per lui — e lo documentano le sue opere religiose giovanili — Cristo era il medico magico, che salva i lebbrosi, i paralitici, gli appestati (si veda per esempio l’Adultera di Dresda, nella quale l’artista ha raffigurato, senza alcun fondamento tematico diretto, alcuni malati che attendono la guarigione dal Redentore). La sua fondamentale esperienza religiosa sembra essere stata in gioventù il miracolo pratico della guarigione dei poveri e dei malati. Più raramente, e alquanto più tardi, si mostra nelle sue opere l’influsso immediato delle idee della Controriforma, soprattutto nei dipinti con l’Ultima Cena, soggetto cui ritornò periodicamente e nei quali magistralmente riassunse la scena storica con la raffigurazione del mistero sacro dell’infusione della grazia. In queste opere Cristo si muta nel prototipo del prete che distribuisce l’ostia. Anche nella Scuola di San Rocco abbiamo potuto supporre, nella Sala dell’Albergo, un riflesso di idee controriformistiche, nella concezione trionfale del Redentore sofferente e morente (possibilmente, come abbiamo detto, simbolo della Ecclesia Triumphans). Ma i cicli della Sala Grande e della Sala Terrena appaiono piuttosto come rappresentazioni, rese spirituali e monumentali, della popolare fede nei miracoli, che era propria del Tintoretto stesso, di quella fonte effettiva della sua ardente devozione, attraverso la quale egli si è avvicinato tanto alla “riforma cattolica”. CH De Tolnay, L’interpretazione dei cicli pittorici del Tintoretto nella Scuola di San Rocco, “Critica d’arte” 1960

All’origine, l’arte del Tintoretto si compone degli stessi elementi che costituiscono quella dei pittori appartenenti alla cerchia bolognese; ma mentre in questi, eccezion fatta per il Tibaldi, predomina la vena parmigianinesca, nel Tintoretto è più forte l’influsso di Michelangelo, che diventa determinante per la forma definitiva del suo stile. Il linguaggio formale del Parmigianino rimane però di fondamentale importanza anche per lui e adempie quella funzione dialettica di equilibrio che toccò ripetutamente al formalismo nella storia dell’arte manieristica. Con il proprio intento artistico, nella dialettica dell’evoluzione storica, il Tintoretto si assume soprattutto il compito di affermare le forze spirituali espressionistiche di fronte all’accademismo estroverso che domina nella prima fase del Manierismo maturo; e come rappresentante di un’arte spiritualistica introspettiva da alla seconda fase l’impronta che la contraddistingue. Egli però contribuirebbe a questa dialettica in modo veramente attivo e fecondo, se non accogliesse le tendenze opposte ai suoi interessi spirituali e se queste non avessero una parte essenziale nello sviluppo del suo stile. La posizione del Tintoretto nella storia dello stile è assai complessa, perché, sebbene egli sia un manierista di origine michelangiolesca, nell’arte del maestro non sono i caratteri manieristici a produrre su di lui l’impressione più profonda. Il manierismo del Parmigianino e anche del Vasari e del Salviati, che si trattengono a Venezia verso il 1540, agisce su di lui in modo assai più univoco e unilaterale, sebbene artisticamente meno risolutivo, che non quello di Michelangelo. Comunque, il vero erede del grande maestro romano è lui, e non il michelangiolismo internazionale, da cui egli si mantiene lontano, nonostante alcuni punti di contatto. La vera differenza tra il manierismo di Michelangelo e quello del Tintoretto sta nel fatto che l’uno attraversa periodi manieristici più o meno limitati, sebbene importantissimi, mentre l’altro è e rimane un manierista per natura, nonostante certe fluttuazioni e l’intermittenza della sua consapevolezza stilistica. Se l’artista mantiene molte conquiste del Rinascimento maturo e anticipa certi aspetti del Barocco, non ha però ‘riserve’ di fronte al Manierismo, quali almeno gli vennero talvolta attribuite.   A. Hauser, Der Manierismus, 1964 (ed. italiana 1965)

La critica prima del Novecento

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