Scritto su Rembrandt di Filippo Baldinucci

Scritto su Rembrandt di Filippo Baldinucci (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

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Scritto su Rembrandt di Filippo Baldinucci (autorevole studioso della storia dell’arte, Firenze, 1624 – Firenze, 1º gennaio 1697), Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1681-1728: Circ’all’anno 1640, viveva ed operava in Amsterdam Reimbrond Vainrein, che in nostra Lingua diciamo Rembrante del Reno, nato in Leyda, pittore in vero di assai più credito, che valore.

Costui avendo dipinta una gran tela [La ronda di notte, n. 246], alla quale fu dato luogo nell’alloggio de’ Cavalieri fo­restieri, in cui aveva rappresentata un’ordinanza di una di quel­le Compagnie di Cittadini; si procacciò sì gran nome, che poco migliore l’acquistò giammai altro artefice di quelle parti.

La cagione di ciò fu più che ogni altra, perché egli fra l’altre fi­gure aveva fatto vedere nel quadro un Capitano, con un pie­de alzato in atto di marciare, e con una partigiana in mano così ben tirata in prospettiva, che non essendo più lunga in pittura di mezzo braccio, sembrava da ogni veduta di tutta sua lun­ghezza; il rimanente però riuscì appiastrato e confuso in modo, che poco si distinguevano l’altre figure fra di loro, tuttoché fatte fossero con grande studio dal naturale. Di quest’opera, del­la quale per ventura di lui gridò quell’età, ebbe egli quattromila scudi di quella moneta, che giungono a compiere il numero di circa a tremila cinquecento de’ nostri Toscani.

In casa un Mercante del Magistrato condusse molte opere a olio sopra muro, rappresentanti favole di Ovidio. In Italia, per quello solamente, che è venuto a nostra cognizione, sono due quadri di sua mano. cioè: in Roma nella Galleria del Principe Pamfilio. una testa di uomo di poca barba con uà turbante in capo: e in Firenze nella Real Galleria nella stanza de’ Ritratti de’ Pittori, il proprio ritratto suo [oggi agli Uffizi, n. 430].

Questo artefice professava in quel tempo la Religione de’ Menisti [la setta dei rnennoniti: ma è dubbio che Rembrandt vi appartenesse], la quale tuttoché falsa ancor ella, è pero contraria a quella di Calvino, che non usano battezzarsi, che di trent’anni. Non eleggono Predicanti letterati, ma si vagliene a tale ufficio di uomini di vile condizione, purché da loro siano stimati, come noi diremmo, galantuomini e giusti: e nel resto vivono a lor capriccio.

Questo pittore, siccome fu molto diverso di cervello dagli altri uomini nel governo di se stesso, così fu anche stra­vagantissimo nel modo del dipignere, e si fece una maniera, che si può dire che fosse interamente sua, senza dintorno bensì o circonscrizione di linee interiori ne esteriori, tutta fatta di colpi strapazzati e replicati, con gran forza di scuri a suo modo, ma senza scuro profondo.

E quel che si rende quasi impossi­bile a capire, si è: come potesse essere, che egli col far di colpi, operasse sì adagio e con tanta lunghezza e fatica conducesse le cose sue, quanta nessun altro mai. Avrebbe egli potuto fare gran quantità di ritratti, pel gran credito, che si era procacciato in quelle parti il suo colorito, al quale però poco corrispondeva il disegno; ma l’essersi già fatta voce comune, che a chi voleva esser ritratto da lui, conveniva lo stare i bei due e tre mesi al naturale, faceva sì, che pochi si cimentavano.

La cagione di tanta agiatezza era, perché subito, che il primo lavoro, era prosciugato, tornava sopra a darvi nuovi colpi e colpetti, finché talvolta alzava sopra tal luogo il colore poco meno di mez­zo dito; onde si può dir di lui, eh’e’ faticasse sempre senza riposo, molto dipignesse, e pochissime opere conducesse; contuttociò si mantenne egli sempre in tanta stima, che un suo dise­gno, nel quale poco o nulla si scorgeva, come racconta Bernardo Keillh di Danimarca [Monsù Bernardo], pittore lodatissimo, che oggi opera in Roma, stato otto anni nella sua scuola, fu venduto all’incanto per trenta scudi. Con questa sua stravagan­za di maniera, andava interamente del pari nel Rembrante, quella del suo vivere, perché egli era umorista di prima classe, e tutti disprezzava.

Lo scomparire, che faceva in lui una faccia brutta e plebea, era accompagnato da un vestire abbietto e sudicio, essendo suo costume nel lavorare, il nettarsi i pennelli addosso, ed altre cose fare, tagliate a questa misura.

Quando operava, non avrebbe dato udienza al primo monarca del mon­do, a cui sarebbe bisognato il tornare e ritornare, finché lo aves­se trovato fuori di quella faccenda. Visitava spesso i luoghi de’ pubblici incanti : e quivi faceva procaccio di abiti di usanze vecchie e dimesse, purché gli fossero paruti bizzarri e pittoreschi: e quegli poi, tuttoché talvolta fossero stati pieni d’immon­dezza, appiccava alle mura nel suo studio, fra le belle galaneterie, che pure si dilettava di possedere: come sarebbe a dire, ogni sorta di armi antiche e moderne, come treccie, alabarde, daghe, sciable, coltelli e simili: quantità innumerabile di squi­siti disegni, di stampe e medaglie, ed ogni altra cosa, ch’e’ cre­deva poter giammai bisognare ad un pittore. Merita egli però gran lode per una certa sua, benché stravagante bontà, cioè, che per la stima grande ch’e’ faceva dell’arte sua, quando si subastavano cose appartenenti alla medesima: e particolarmente pitture e disegni di grandi uomini di quelle parti, egli alla pri­ma offerta ne alzava tanto il prezzo, che non mai si trovava il secondo offerente : e diceva far questo, per mettere in credito la professione. Era anche assai liberale nell’ imprestare quelle sue miscee ad ogni pittore, a cui per far qualche lavoro fossero abbisognate.

Quello, in che veramente valse questo artefice, fu una bizzarrissima maniera, che egli s’inventò d’intagliare in rame all’acqua forte, ancor questa sua propria, ne più usata da altri ne più veduta, con certi freghi e freghetti, e tratti irregolari e senza dintorno, facendo però risultare dal tutto un chiaroscuro profondo e di gran forza. E vaglia la verità, il Rembrante in questo particolare dell’intaglio, fu da’ professori dell’arte assai più stimato, che nella pittura, nella quale pare, che egli avesse piuttosto singolarità di fortuna, che di eccellenza. Ne’ suoi in tagli usò perlopiù di notare con mal composte, informi e strapazzate lettere, la parola Rembrandt.

Con questi suoi intagli egli giunse a posseder gran ricchezza, a proporzion della quale si fece sì grande in lui l’alterigia e ‘1 gran concetto di se stesso, che parendogli poi, che le sue carte non si vendesser più il prezzo, che elle meritavano, pensò di trovar modo di accrescerne universalmente il desiderio: e con intollerabile spesa ne fece ricomperare per tutta Europa quante ne potè mai trovare ad ogni prezzo: e fra le altre una ne comprò in Amsterdam allo ‘ncanto per scudi cinquanta: ed era questa una resurrezione di Lazzero, e fecelo, in tempo, che egli medesimo ne possedeva il rame intagliato di sua mano. Finalmente con tal bella invenzione diminuì tanto il suo avere, che si ridusse all’estremo: ed occorse a lui cosa, che rare volte si racconta di altri pittori, che diede in fallito; onde partitesi di Amsterdam, si portò a’ servigi del Rè di Svezia, dove circa all’anno 1670, infelicemen­te si morì. Questo è quanto abbiam potuto fin qui rintracciare di notizia di questo artefice da chi in quel tempo il conobbe e familiarmente il praticò.

Se poi egli perseverasse in quella Religione, non è venuto a notizia nostra. Restarono alcuni, che erano stati suoi discepoli, cioè il soprannominato Bernardo Keillh di Danimarca, e Guobert Flynk di Amsterdam: e questi nel colorito seguitò la maniera del maestro, ma assai meglio dintorno le proprie figure: e finalmente restò fra’ suoi discepoli il pittore Gerardo Dou di Leyda. Filippo baldinucci, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1681-1728               

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