Dal 4000 al 3000 a.C. emergono dalla notte buia della preistoria, le vastissime regioni dei più importanti fiumi che attraversano l’India e la Cina.
Queste civiltà esprimono caratteristiche estremamente singolari, un marcato vigore artistico e una vita dedicata alla creazione di opere, in costante evoluzione attraverso i secoli.
La produzione artistica di queste civiltà è di grandissima importanza e completamente diversa nella forma e nell’espressione da quella delle popolazioni occidentali.
Le urbanizzazioni che si potenziano lungo tutto il corso dell’Indo, diffondendosi dal Pakistan al Gange, hanno i loro punti nevralgici nelle città di Harappa (Punjab) e Mohenjo-daro (Khairpur, Pakistan).
ARTE DELL’INDO
Coerenza, razionalità e intransigenza governano l’urbanizzazione nelle epoche più antiche: isole urbanistiche regolarmente squadrate, ciascuna con estensione di 400 metri per 200 metri e strade perpendicolari orientate nelle direzioni dei meridiani e dei paralleli terrestri, dalle quali si diramano vie secondarie, che mettono a punto la mappa delle più importanti città. In posizione elevata sta il fulcro dell’acropoli, protetta dalle mura.
L’esibizione del potere si manifesta nei maestosi centri monumentali, nella rappresentazione stessa di tutta la struttura urbanistica più che nei singoli fabbricati: di scarso rilievo artistico sono infatti gli sporadici templi e le tombe reali, che invece caratterizzano i popoli della Mesopotamia e dell’Egitto.
Le dimore del popolo, tutte fabbricate con mattoni cotti e legno, sono posizionate intorno ad una grande corte, dalla quale si diramano gli accessi ai reparti dei bagni e ad altri ambienti di uso comune, non sempre direttamente comunicanti tra loro.
Il continuo sfruttamento del territorio, la costante lotta con i suoi fiumi, pieni di vita ma talvolta impietosi, danno modo alla popolazione dell’Indo di maturarsi durante il corso dei millenni: con l’ausilio di intelligenti apparati di irrigazione, ottiene abbondanti raccolti di grano, di cotone e sviluppa la pastorizia. Le innovazioni della tecnica idraulica permettono la realizzazione di una catena di fognature collegate tra loro, una ragnatela di tubolature per l’approvvigionamento dell’acqua, dighe, numerosissimi e capienti pozzi in mattoni a disposizione dell’intera comunità. La società, in questo periodo, che va dal 2000 al 1000 a.C., ha un livello di civilizzazione molto elevato rispetto alle altre popolazioni; è omogenea sotto il profilo artistico – culturale e concettuale, con sistemi universali per la misura e la scrittura, e risulta centralizzata sotto l’aspetto politico.
Eccezionale il livello espressivo ottenuto nel campo della lavorazione della ceramica. Le forme arrotondate dei vasi, create prevalentemente con il tornio, sono quasi sempre decorate in tinta nera con sfondo rosso, mentre quelli con più colori hanno generalmente uno sfondo molto più chiaro. Temi a forma geometrica, strisce racchiuse tra linee che corrono parallelamente, zone a scacchiera, tratti circolari, cerchi concentrici e segni a spirale si accostano a soggetti più realistici, come la rappresentazione della natura vegetale, animale (comprese le figure umane), non di rado frammisti con tematiche impressionanti, talvolta mostruose.
Il linguaggio espressivo delle popolazioni dell’Indo, ha la sua caratteristica più significativa nei i sigilli a stampo in steatite: di forma generalmente quadrata con superfici ben levigate, seguono codici consueti nella preferenza della tematica. La figura di spicco in senso assoluto è sempre l’animale, da solo o in gruppi, che costituisce l’immagine più assiduamente raffigurata sui reperti che sono giunti ai nostri giorni. Sotto una breve didascalia codificata, formata da non più di quattro o cinque segni, la figura dell’animale è posizionata in modo frontale verso oggetti dal significato talvolta sconosciuto: l’unicorno dall’aspetto bovino si protrae tutte le volte verso un imperscrutabile braciere, costituito da una trave verticale sulla quale si collocano un catino e un altro pezzo posto in verticale.
Accanto ai rarissimi piccoli bronzi ed alle ceramiche, la scultura in pietra del sacerdote da Mohenjo-daro – per la cura particolareggiata nella realizzazione della barba, per le eleganti forme del volto, per la torsione della testa – costituisce la testimonianza dei suoi alti linguaggi espressivi. La rapida evoluzione dei popoli dell’Indo viene troncata improvvisamente nel XVI secolo a.C.; le metropoli di Harappa e Mohenjo-daro scompariranno per sempre e saranno sostituite da numerosi villaggi agricoli.
La Cina, probabilmente, dà piena vita alla sua attività artistica entrando nella civiltà neolitica già verso l’VIII millennio a. C., ma sono stati i popoli degli Xia a far nascere (stando alle antiche scritture) la prima civiltà della storia cinese intorno al XXI secolo a. C.
Seguono poi altri popoli e, sotto il dominio degli Shang-Yin, che va dal XVI all’ XI secolo a.C., l’arte consegue la sua più elevata e completa espressione nella lavorazione del bronzo, prevalentemente con le raffigurazioni celebrative.
Arte cinese: Taotie su un recipiente in bronzo (tipologia ding), appartenente al periodo della tarda dinastia Shang.
Queste forme artistiche designate per la rappresentazione di oblazioni e per offerte sacrificali agli dei, differenti in tutti gli aspetti e nella tipologia, sono ornate da figure di animali prodotte dalla fantasia, con finalità totemiche.
Il taotie, maschera del divoratore che cerca di inghiottire l’uomo, il dragone, la fenice, i volatili e i mostri creati dalla fantasia spiccano di frequente su sfondi a tematiche tortuose e spesso incomprensibili, con effetti di movimento, di linee parallele e di poligoni quasi sempre triangolari e, con decorazioni a forme di nuvola e a giro a spirale.
La reclusione dell’effigie animalesca o della creatura rappresentante il totem in una tematica celebrativa, tiene a freno la sua potenza, trasmettendo il controllo allo sciamano.
Lo stretto rapporto tra politica e religione, insieme al potere esclusivo monopolizzato dagli sciamani, rende il sovrano coordinatore del culto e del legame con tutto ciò che è ultraterreno: dal momento che il criterio di vita terrestre deve esprimersi alla stessa stregua di quello divino, il controllo della magia e l’armonia delle forze celesti sono elementi che non possono mai mancare per la guida di buon governo.
Arte cinese – vaso rituale appartenente al periodo della dinastia Shang
Soppiantati gli Shang-Yin e subentrati gli Zhou nell’XI secolo a.C., lo stato sociale politico viene rivoluzionato, dando vita a correnti di pensiero filosofico e religioso: nasce il confucianesimo.
Nell’arte, ai procedimenti di trattamento e lavorazione della giada, dell’osso e dell’avorio, si accosta la creazione di piccolissime statue in terracotta con caratteristiche antropomorfe piene di vitalità e di movimento, la cui finalità è unicamente quella di condurre il defunto nell’altro mondo, sostituendo il sacrificio umano.
Nei bronzi, ormai consumato attraverso i secoli il ruolo di “tramite” di forze magiche e divine, emerge un’astrazione ancor più accentuata nelle tematiche ornamentali raffiguranti animali. Lunghe didascalie coprono le superfici metalliche: la celebrazione di un avvenimento glorifica la stirpe, commemora i capostipiti.
Un elemento ornamentale tutto nuovo, il “pan chi”, un intreccio di draghi che si propaga a macchia d’olio nella famosa epoca delle “primavere e autunni”, che va dall’VIII al V secolo a.C., durante il quale lo stato si trasforma, prendendo caratteristiche feudali ed i governanti locali sono frequentemente in conflitto con il potere centrale.
Esercito di Xi’an in terracotta
Con guerre civili che portano alla piena crisi del dominio degli Zhou e con la successiva restaurazione dell’ordine, ad opera della dinastia Qin nel 221 a.C., dopo un brevissimo periodo subentrano, nel 206, gli Han occidentali, che governeranno fino alla nascita di Cristo.
In questo periodo grandissimi risultati vengono concretizzati nel campo della scienza, nella coltivazione, nella produzione artigianale e soprattutto nell’arte. Gli scambi commerciali rifioriscono grazie alla supervisione della via della seta. In bronzo vengono sagomate quasi esclusivamente figure di animali, raffigurati con pochissimi tratti quasi abbozzati, che manifestano con gli occhi pieni di vitalità e con gli atteggiamenti, un penetrante spirito di osservazione.
Le peculiarità dei piccoli bronzi si manifestano con forza espressiva anche in numerosissime opere in terracotta: statuine raffiguranti animali o normalissime persone tratte dalle scene di vita di tutti i giorni, continuano la tradizione delle celebrazioni funerarie di epoca Zhou.
Famosissimo, e considerato patrimonio culturale mondiale dell’UNESCO, è l’esercito in terracotta (esercito di Xi’an), costituito da oltre 7.000 soldati e cavalli, realizzati in tutti in grandezza naturale. Le figure, trovate e disseppellite a Shihuangdi, avevano la colorazione ancora originale che poi si è affievolita a causa della luce e dell’aria. Oggi le figure appaiono tutte con i toni monocromatici della terracotta.
Grande importanza hanno le tombe ornate con mattoni incavati a lastra, decorati a rilievo con temi quasi sempre relativi alla caccia.
Dalla propria tomba, proviene ai nostri giorni il vestito funerario del principe Liu Sheng (154-113 a.C.), effettuato con ben 2498 tessere di giada tenute assieme con 1100 grammi di filo da cucitura d’oro.
Fasciare il corpo del defunto con la straordinaria protezione della giada – la pietra incorruttibile per antonomasia – soddisfa in questo periodo, la necessità di rendere immortale oltre lo spirito anche il corpo.
Coincide con questo periodo la nascita di un secondo linguaggio espressivo, nel quale corrono parallelamente le due anime spirituali della venerazione cinese, quella taoista (mistica) e quella confuciana (concreta).
Ci sarà presto una consistente restaurazione, ma la dinastia terminerà poco dopo con un’usurpazione effettuata dagli Han orientali negli anni 250-220.
Dal 2500 a.C. nell’isola di Creta ed in tutto l’arcipelago delle isole Cicladi (la denominazione deriva dalla loro disposizione a cerchio con Delo pressoché al centro), nascono e si sviluppano civiltà che si espandono rapidamente grazie alle fiorenti rotte commerciali marittime.
Queste nuove popolazioni creano caratteristici modelli artistici che forniranno un preziosissimo contributo alle future civiltà, in modo particolare a quella ellenica. Un’immensa migrazione proveniente dall’entroterra e da tutta l’Asia Minore incomincia a prendere forza nel Mare Egeo.
Il mare Egeo costituisce l’intelaiatura dell’arte pre-ellenica, grazie al suo arcipelago, formato da numerosissime isole strategicamente posizionate, che facilita gli scambi commerciali.
Un intenso sviluppo, che oggi possiamo definire come un vero e proprio boom artistico-culturale, ha origine intorno alla metà del III millennio nelle isole Cicladi: vasi, tavole, bracieri, contenitori di ogni tipo, statuette, teste umane, animali, tutti in ceramica decorati con cerchi a spirale, con simboli marinareschi (dove immancabilmente viene raffigurata la nave come simbolo principale, per la sua importantissima funzione negli scambi commerciali) e puntali di lance, formano la creazione artistica cicladica in questa prima fase.
È soprattutto il marmo, di cui le Cicladi sono abbondantemente fornite, che permette la nascita della forma scultorea: figure femminili, molto probabilmente dee della fertilità, kourotróphoi (donne con l’immancabile figlioletto in braccio), figure umane mentre suonano una piccola arpa poggiata sulle ginocchia o un flauto, sono tra i temi più frequentemente rappresentati.
Le dimensioni di queste opere sono le più disparate e vanno da pochi centimetri fino ad oltrepassare abbondantemente il metro. Le caratteristiche somatiche sono molto semplificate: la testa ed il collo, nel loro insieme, sono rappresentati da un unico cilindro, con un piccolo accenno protuberante ad indicarne il naso. Osservando più reperti appartenenti ai diversi periodi progressivi, si riesce ad intravedere che gli artisti sono in una preliminare fase di indagine, per quanto riguarda le proporzioni dei caratteri somatici.
Palazzo di Knossos
Intorno al 2000 a.C., la superiorità assoluta dell’espressione artistica nella vasta area dell’arcipelago, è attestata a Creta: qui si costruiscono i palazzi reali di Knossos, di Phaistos e di Mallia che hanno anche caratteristiche templari.
Sin dalla fase prepalaziale (minoico antico, che va da circa il 2500 al 2000 a.C.) i Minoici, il cui nome deriva dal famoso Minosse, avevano dato vita ad espressioni artistiche di nuovo interesse. L’attenzione nella natura si è già rivelata nei rhytà con la testa a forma di toro, nella modellazione plastica dei vasi; il vigore e la forza del colore ornamentale sono nelle chiazze a forma di fiamma policroma della ceramica di Vasiliki (considerato come il più importante centro produttivo) e nei sigilli che presentano variegate forme geometriche del mondo vegetale ed animale.
Molto vaste e di alto interesse sono le creazioni e le elaborazioni vascolari nel periodo delle prime importanti edificazioni (2000-1650 a.C.).
Il linguaggio espressivo è in continuo sviluppo e, dopo l’esperienza dello stile di Kamares, prende forza, specialmente a Knossos, un tipo di decorazione che impiega tinta bianca su fondo scuro tendente al bruno, nel quale viene immancabilmente raffigurata la natura in tutte le sue forme: frastagliati ramoscelli, fragili liliacee, moltissime margherite e delfini in pieno dinamismo.
Un affresco del sito archeologico di Cnosso
Nella rappresentazione scultorea, l’uomo è coperto soltanto dal piccolo perizoma, mentre la figura femminile è cinta da un busto aperto, che lascia vedere il petto, e la gonna abbondantemente lunga e voluminosa: il ventre sottile e il torso a sezione quasi perfettamente triangolare, la vitalità negli atteggiamenti nella funzione religiosa o nella danza, alimentano la rigogliosa vivacità alle figure rappresentate.
Molto articolata è la dea dei serpenti, dove l’interesse minoico, che punta sulla molteplicità dei colori, si fonde con l’uso della faìence (ceramica non argillosa invetriata a base di silice). Insieme alle creazioni di artisti di alto livello, ci sono le terrecotte artigianali che raffigurano animali domestici, papere e gazzelle; molto divulgata è la raffigurazione del toro.
La vivace esplorazione della natura sorprende gli animali nelle pose più caratteristiche: nei sigilli, la capra selvaggia è sul cocuzzolo della roccia e il toro in un atteggiamento dinamico per raffigurare la sua corsa.
La dea dei serpenti, in ceramica smaltata, Museo Archeologico di Iràklion
Nuovi e sontuosi “palazzi reali” vengono edificati nelle città di Knossos e di Phaistos, sulle macerie dei precedenti, tra il 1630 ed 1425 a.C. Nel campo della ceramica, anche in questo periodo, il tema principale è il mondo della natura, per esempio, sono rappresentate grandi distese di mare e con gli abitanti del suo fondale: eleganti polipi che si sgrovigliano, con gli scivolosi tentacoli in prospettiva obliqua sulla superficie del vaso, argonauti, stelle marine di tutti i tipi, coralli, conchiglie e contorni di rocce sinuose.
L’alto livello tecnico della scultura minoica, mancando quella con caratteristiche monumentali, è manifestata nei vasi, anfore, rhytà in steatite, basalto e porfido, decorati generalmente con figure a rilievo. Una fila ordinata e vivace di mietitori con forconi aventi a capo una figura con corsetto, un suonatore di sistro e tre cantanti, si distende sul rhytón piriforme: l’artista ottiene la profondità prospettica mettendo i corpi strato su strato, intersecando i forconi; poco evidente è così lo stacco tra il busto visto di fronte e le gambe di profilo.
Suonatore di lira, Museo Archeologico Nazionale, Atene
L’uomo è soltanto uno dei componenti della tematica realistica, che è fortemente sentita e riprodotta nei suoi più variegati aspetti.
Nella ceramica si nota l’assenza di quell’energia della tematica che aveva contraddistinto la pittura minoica: il polipo viene ora rappresentato disposto sull’asse perpendicolare alla base, gli altri componenti di origine marina, fiori, papiri e edere si combinano in un linguaggio rigoroso e conforme allo “stile di palazzo”.
Dopo i danni provocati dall’eruzione del vulcano di Thera e da altre calamità, che producono la devastazione dei palazzi da poco ricostruiti, nel 1425 a.C., il centro nevralgico si sposta dall’arcipelago alla terraferma, nella Grecia continentale, dove l’apprendimento artistico dalle popolazioni cretesi aveva migliorato di molto la locale cultura elladica.
Approfittando delle difficoltà di Creta, i Micenei si sostituiscono ai Minoici affermando piano piano il loro dominio sull’Egeo e su tutta la parte orientale del Mediterraneo. La pianificazione sociale di Micene, di Orcomeno, di Tirinto e la dominazione di una casta militare, hanno portato ad abbinare ai leggendari Achei, cantati da Omero, i padroni di queste città greche fortificate e tutte costruite su alture.
Le cinta che proteggono l’acropoli di Tirinto hanno una larghezza che varia tra i 5 e i 17 metri. Le grandi torri irrobustiscono le mura, mentre gallerie interne ad esse e passaggi sotterranei l’attraversano internamente per l’intera area. La maestosità viene messa in risalto dai Leoni di Micene nell’ingresso principale, schematica e potente nei massi che la edificano: le due belve in atteggiamento araldico mentre scavalcano la trave principale di sostegno, sorvegliando l’entrata della città, sono le prime più evidenti testimonianze della scultura monumentale prodotte dalla Grecia.
Nodo nevralgico di tutte le fortificazioni è il palazzo del sovrano, accentrato attorno ad una corte molto piccola rispetto a quella minoica.
Tomba monumentale, cosiddetta tomba di Clitennestra
Acropoli di Micene
La diversità dello stile di vita delle due civiltà si manifesta soprattutto sul modo di concepire l’urbanistica, sia sui temi ornamentali che nei modelli architettonici: alla configurazione strutturale del tipo aperto del palazzo cretese si sostituisce quella del tipo chiuso del mégaron, sala di rappresentanza squadrata e coperta, riportata spesso nei canti di Omero.
Negli affreschi i pittori micenei affrontano tematiche che glorificano l’esercizio del sovrano; scenari bellici, lunghe ed ordinate sfilate di figure maschili e femminili che sfoggiano sulle pareti degli edifici, scene di caccia dove si vede l’uomo e l’animale in atteggiamenti dinamici.
Biban el-Harim o Biban el-Sultanat ovvero, in italiano, la “Valle delle Regine si trova alle spalle di Medinet-Habu , a su-ovest della Valle dei Re, e dalla parte opposta a Deir el-Medina, un villaggio con con il quale comunicava tramite un sentiero in costa.
La necropoli, ad iniziare dalla XVIII dinastia, ma prevalentemente nel corso delle XIX e XX, era destinata ad ospitare i corpi delle regine e dei principi reali. Tra il 1903 ed il 1906, Ernesto Schiaparelli alla direzione della Missione Archeologica Italiana, scoprì un’ottantina di tombe in questa necropoli, qualcuna incompiuta e nessuna inviolata. Le tombe hanno una superficie inferiore a quelle dei re e sono decorate in modo diverso. Non ci sono i pozzi, e le raffigurazioni dei cicli connessi al viaggio del Sole sono rare. Molte invece sono le scene tratte dal Libro dei Morti e le rappresentazioni dei defunti di fronte alle divinità. Il cromatismo, le forme, le composizioni, la cura dei particolari ed il grande equilibrio, evidenziano grande preparazione e gusto degli artisti che vi hanno lavorato. Tra le ottanta tombe, la più interessante è quella della regina Nefertari, moglie di Ramesse II. Hanno un grande rilievo, anche le tombe dei principi Amonherkhopeshef e Khaemuaset, figli di Ramesse III.
Tomba di Nefertari Merenmut (QV66)
Tomba di Nefertari Merenmut (n. 66). La tomba ha una rampa di scale all’ingresso, che porta ad una vasta stanza trasversale, la quale dalla destra, accedendo ad una piccola anticamera conduce in una seconda stanza. Dalla prima camera, un’altra scalinata conduce alla sala a quattro pilastri del sarcofago, la quale ha tre annessi. La tomba fu violata nell’antichità, per cui soltanto pochi elementi sono stati trovati, alcuni dei quali portati al Museo di Torino: pochi resti della mummia, alcuni usciabti lignei, frantumi del coperchio del sarcofago, cocci di ceramica. Ha avuto ingenti danni dovuti alla forte umidità.
è visibile l’ingresso, dalla prima camera, l’ingresso all’anticamera e, sullo sfondo, le raffigurazioni parietali della seconda stanza. In primo piano sulla sinistra Osiri e Anubi, sotto i sacelli, e, lungo lo sguincio d’entrata, la dea Seikis. Nella raffigurazione di fondo dell’anticamera il dio Kheperi, con la testa di scarabeo ( ovvero il Sole nascente). Al di là della seconda entrata, sul fondo, Osiri e Atum.
questa foto riprende la stesse stanze che sono nella foto 1, con la stessa prospettiva ma sulla parte destra. Lungo lo sguincio d’entrata è visibile la dea Netfh, mentre sulla parete di fondo la dea Hafhor dell’Occidente e le mani di Ra-Harakhte.
la regina Nefertari gioca agli scacchi ed ha di fronte un uccello anima (Ba) sopra un naos. La raffigurazione ha un significato ben specifico nella simbologia funeraria e corrisponde ad una “prova di passaggio “. Sotto, la mummia sul letto di morte tra Nefti ed Isi con sembianze di falchi
la regina Nefertari nell’atto di offrire due vasi a forma globulare. Davanti a sé c’è una ben fornita tavola d’offerta.
Scene dal Libro dei Morti, il famosissimo testo funerario che, ad iniziare dal Nuovo Regno, rimane un’integrazione indispensabile dell’apparato funerario non regale. Nella scena parietale della seconda camera sono visibili cinque delle sette vacche sacre, ognuna col proprio nome, insieme ad un toro. In basso sono visibili tre dei quattro timoni del ciclo che corrispondono ai quattro punti cardinali.
La regina Nefertari, che tiene per mano Isi-Hathor, è raffigurata con le vesti che seguono la moda della XIX dinastia. Ha una lunga e comoda veste, bianca e trasparente, con maniche larghissime, ornata con un ampio collare e da una lunghissima cintura annodata su due giri di vita. La sua acconciatura regale è formata dalla spoglia di avvoltoio con sovrapposto un modio con penne ammoniane; la dea Isi-Hathor è raffigurata con l’arcaico vestito a bretelle in policromia
tomba di Nefertari
tomba di Nefertari
tomba di Nefertari Merenmut
tomba di Nefertari Merenmut
tomba di Nefertari
tomba di Nefertari
Tomba di Khaemuaset (QV44)
La tomba è formata da un corridoio abbastanza lungo con due annessi, che conduce a una camera ornata da raffigurazioni in rilievo ben mantenuti.
La foto in alto a sinistra mostra una figura di giovane ignudo, dal colore rossastro, seduto su di un cuscino (il dio grande Herymaat) che ha di fronte a sé un genio con la testa di leone (Nebnery) che gli volta le spalle. Nella foto in basso a sinistra, il faraone che ha di fronte Shepes.
tomba di Amonherkhopesheftomba di Amonherkhopesheftomba di Amonherkhopeshef
Tomba di Amonherkhopshef (QV55)
La tomba è formata da una scala d’ingresso, da una camera quadrata, un corridoio con annesso che conduce alla sala del sarcofago. Le raffigurazioni parietali sono scene dal Libro delle Porte e altre dove il re presenta il figlio (in proporzioni inferiori e con il capo con la treccia dell’infanzia) alle varie divinità.
Le tre foto mostrano il re di fronte a Ptah ed a Duamutef.
Foto 1: il re di fronte a Isi-La Grande
Foto 2:il re di fronte a Ptah
Foto 3:il re di fronte a Duamutef.
Nell’altra pagina altre tombe (valle dei re) e reperti: Tomba di Ramesse VI (KV9), di Amenofi II (KV35), di Thumtmose III (KV34), di Tutankhamen (KV62), di Horemhab (KV57), di Ramesse I (KV16)
Passato lo straordinario periodo dorico dello “stile severo” greco, l’arte ateniese si consolida con Fidia, che nelle sue opere rappresenta gli dei in continua relazione con il popolo. L’Apollo tipo Kassel si differenzia dall’Alexikakos di Calamide per la forma strutturalmente più larga del corpo e i contorni più netti.
Paragonando le teste a quelle più allungate di Mirone, la fronte è molto più vicina al rettangolare. All’arresto del passo si percepisce la spontanea ed immediata “apparizione” (epiphàneia).
Se Calamide interpretava il pensiero di Cimone, Fidia fa attenzione all’elemento democratico di Pericle: guadagna con le pubbliche committenze e con la promozione a sovrintendente (episkopos) per le nuove opere monumentali che dovranno essere realizzate.
In questo periodo, proprio dal cantiere dell’Acropoli, ha origine e si diffonde un linguaggio espressivo universale, la lingua figurativa dell’Europa: un movimento narrativo in continua evoluzione.
Per quanto riguarda la gerarchia tematica negli ornamenti del Partenone, che si arricchisce gradualmente di un colore sempre più significativo, notiamo che passa da un livello basso a quello superiore rispetto al suolo: inizia con la raffigurazione della festa panatenaica nel fregio intorno alla cella, per risalire all’epica e al mito nelle metope (elemento architettonico facente parte del fregio), fino alla sovrastante veduta dei frontoni.
La progressiva intensificazione della sacralità ha sempre una direzione, da ovest verso est, in relazione all’avanzare del visitatore che giunge dai Propilei. Nelle metope a ovest e a sud mancano le raffigurazioni delle divinità; pochissime appaiono sulla fiancata esposta a nord, mentre nella Gigantomachia della facciata è presente un dio dell’Olimpo su ogni metopa. Alla stessa stregua, il fregio contiene personaggi eroici e numi soltanto a est. Il timpano occidentale è colmo di eroi con due sole divinità: Posidone ed Atena che si contrastano per ottenere l’Attica; l’altro timpano raffigura Zeus con Atena che nasce e la corte celeste.
Testa dell’Apollo tipo Kassel, I sec. d.C , Replica di età flavia da originale bronzeo in dimensione maggiore alloriginale, raffigura Apollo Parnopios. La statua fu dedicata verso il 460 a.C. dagli ateniesi, grati al dio per aver salvaguardato la città.
Tutta l’architettura scandisce il racconto, dall’isolamento degli episodi nelle metope alla continuità della processione nel fregio, fino alla concentrazione dei miti nel momento decisivo dei frontoni: la cella raffigura Atena, nel colosso crisoelefantino. Opera monumentale democratica della coesistenza, il Partenone avvicina ed unisce il motivo dorico ai temi ionici. Commemora l’incontro di persone appartenenti a diverse organizzazioni politiche: lungo il fianco esposto a nord, che guardava alla sede dei primitivi culti, la processione è scandita e cadenzata in rapporto alle quattro tribù del più antico ordinamento, mentre a sud vige la società riformata di dieci phylai (tribù). Tende a far convergere i comuni mortali con personaggi eroici e gli dei, presenti alla distribuzione del peplo (peplo o chitone: indumento base per ragazze)
Atena Parthenos (Fidia)
L’ammonimento della contesa non risolta tra forze storiche e sovrannaturali si impone nelle metope dove Giganti, Centauri, Amazzoni e Troiani non sono in completa disfatta. Tra gli artisti che hanno collaborato alla decorazione si identifica anche la mano di Alcamene, che ha operato nella lastra del fregio a est, nella quale i capelli di Posidone sprigionano la morbidezza fluida del Bronzo B di Riace: caratteristico è il grande occhio che guarda fisso.
Chi è Fidia
Fidia è un grande scultore greco (PHEIDIAS). Nasce nella città di Atene nel 490 a.C.e muore nel 431 a.C. circa. Figlio di Carmide, secondo accreditate fonti letterarie è stato discepolo dell’ateniese Egia e probabilmente anche di Agelada. Eccellente nella ricerca della perfezione della forma e caratteristico nel suo linguaggio plastico.
Facciata occidentale del Partenone
I suoi primi capolavori sono stati la statua crisoelefantina di Atena per la città di Pellene in Acaia, la statua in bronzo di Apollo reso famoso nelle copie marmoree e denominato “Apollo di Kassel” e la gigantesca statua, alta intorno ai 7 metri, sempre in bronzo dell’”Atena Promachos”, posta sull’Acropoli di Atene, che reggeva lo scudo nel quale era rappresentato uno scontro con le Amazzoni.
Prima del 450 a.C., Fidia realizza a Delfi un donario degli Ateniesi per la battaglia di Maratona con la statuaria di Milziade, tra Apollo e Atena, e di altri personaggi eroici dell’Attica e, per i coloni di Lemno, l’”Atena Lemnia”. Verso il 450 a.C. è in fase di studio da parte di esperti la realizzazione del colosso crisoelefantino di Zeus per il tempio ad Olimpia, ritenuta una delle sette meraviglie. Durante il soggiorno in Olimpia, è probabile che abbia creato la statua dell’Anadumeno.
Dal 447 a.C. circa inizia la meravigliosa opera di Fidia nel Partenone, fatto erigere da Pericle sull’Acropoli di Atene. A lui si deve la sovrintendenza dei lavori e la decorazione scultorea di tutto il fabbricato. Dopo il Partenone Fidia eseguirà l’Afrodite Urania.
Il Partenone come si vede dalla collina della Pnice ad ovest.
Frammenti d’arte:
Il Partenone
Il Partenone, innalzato sull’Acropoli di Atene, rappresenta la massima espressione dell’architettura greca. Fu edificato dall’architetto Ictino su un progetto già iniziato con Callicrate, sotto Cimone.
L’iniziativa della costruzione nacque da Pericle e la supervisione generale venne affidata allo scultore Fidia.
Il Partenone è un tempio periptero octastilo (o ottastilo), cioè circondato dalle colonne nei quattro i lati, ognuno dei quali con otto colonne sulla facciata corta e 17 sulla facciata lunga.
Fu iniziato nel 447 a.C. e portato strutturalmente a termine nel 438 a.C. Le decorazioni continuarono per altri sei anni.
Le dimensioni rilevate allo stilobate (alla base d’appoggio delle colonne) sono di 30,9 x 69,5 metri, mentre la cella misurava 28,8 in lunghezza e 19,2 in larghezza, con colonnati dorici interni necessari al supporto del tetto.
Le colonne doriche esterne (tranne quelle agli angoli un po’ più grandi) hanno un diametro di 1,9 metri ed un’altezza di 10,4 metri. Il capitello è di stile dorico.
Il frontone orientale rappresenta la nascita di Atene da Zeus, mentre quello occidentale la lotta tra Atena e Nettuno.
Fidia realizzò in bassorilievo le novantadue metope doriche, che furono progettate dallo scultore Kalamis. Quelle sul lato ovest raffigurano, con l’Amazzonomachia, la battaglia fra Amazzoni e Ateniesi, quelle a sud raffigurano – eccetto quelle dalla XIII alla XX quasi del tutto perdute – la Centauromachia Tessala, quelle sul lato nord sono abbastanza rovinate, ma lasciano intravedere la Guerra di Troia.
Lo stile delle metope evidenzia l’influsso dello Stile Severo nella massa corporea e nella riduzione del movimento.
Lungo i muri esterni della cella, è presente un fregio ionico che risulta essere il tratto più caratteristico, sia strutturale che decorativo . La sua scultura in bassorilievo rappresenta idealmente la processione panatenaica verso l’acropoli.
La ricchezza decorativa del Partenone non si trova in nessun altro tempio classico greco.
Un importantissimo evento nel campo della pittura è l’arrivo di Zeusi ad Atene dalla Sicilia, e uno altrettanto significativo è il soggiorno di Gorgia di Lentini, che influisce prepotentemente nel campo letterale, dando origine al linguaggio retorico
Atene intorno al 430 – 400 a.C., periodo che corrisponde più o meno alla guerra del Peloponneso, non è soltanto il centro nevralgico dove avvengono le grandi manifestazioni artistico-culturali: Efesio (situata in Asia Minore, presso il fiume Caistro, antichissima città della Lidia) ad esempio ha il pittore Everone e suo figlio Parrasio, Cinco ha Timante e le Cicladi attirano artisti da ogni parte, anche gli stessi Parrasio e Timante. Tutto però ruota intorno ad Atene.
Questi grandissimi personaggi sono affascinati dallo splendore artistico ateniese, dal quale prendono ispirazione, e trascorrono una vita molto movimentata, spostandosi di frequente da una città all’altra, su tutto il territorio della Grecia e della sua periferia, esportando la loro cultura: Zeusi va a lavorare nel sud dell’Italia, a Efeso in Macedonia, a Olimpia e a Samo. Parrasio ad Efeso, Lindo, Rodi, Samo, Corinto e Delo. Il motto è sempre “Arte per l’arte”: opere pittoriche realizzate per essere interpretate da altri conoscitori. Una cultura tutta giocata nel figurativo, così determinata nelle proprie risorse, dove ogni creatore può pensare di avere raggiunto l’essenza della bellezza. Parrasio per i suoi tratti eleganti, Zeusi principalmente per il contrasto chiaroscurale: una gloria che non nasce più dai segreti espedienti di bottega, ma da una libera creazione.
Le opere di Zeusi e soprattutto le sue tavolette si sottraggono ai religiosi visitatori dei luoghi di culto ed alle persone che sono in continua ricerca delle perdute virtù, irradiandosi invece verso i più svariati amatori di arte, con le naturali e semplici scene di vita: il “Fanciullo con l’uva”, la “Vecchia”, le” Giocatrici di astragali”. Il Pittore continua a ripetere ad Agatarco di voler operare per la storia e non per la città: da qui si intuisce chiaramente il grandissimo interesse e lo sviluppo che avrà la pittura di genere.
Zeusi
Questo è un grande pittore, nato ad Eraclea in Lucania e vissuto nella seconda metà del secolo V a.C. Il suo vero nome è Zeuxippos.
La sua notorietà lo rende molto ricco ed anche molto stravagante: passeggia per Olimpia avvolto in un mantello, con ornamenti in oro che raffigurano il suo nome e al termine della sua vita artistica, non credendo più alla sua arte, regalerà le sue ultime opere.
Si impegna attivamente in tutto il territorio greco, macedone, in Italia meridionale ed Asia Minore. Le principali fonti antiche lo collocano tra i più grandi pittori dell’antica Grecia.
Zeusi è stato il primo ad introdurre il cavalletto nella Pittura ed a caratterizzare quest’ultima arricchendola con un notevole cromatismo, frutto di un attento studio spaziale e introspettivo. Cura in modo particolare gli effetti dei chiaroscuri che rendono luminose le sue opere. Queste sono generalmente a tema mitologico, ma anche figure di donne e bambini.
Stile bello
L’Apoxyómenos di Lisippo
La fase dell’arte, intesa come consapevolezza dell’essere, termina pressappoco con la capitolazione di Atene (404 a.C.).
Non essendo più alimentata dalla linfa vitale dell’arte ed avendo ormai perso il privilegio di interporsi tra la natura l’uomo, nella città assediata si rompe traumaticamente la fiducia di poter riprodurre il mondo reale seguendo i canoni ammessi: nella forma figurativa non vi è più il presidio della certezza.
La bellezza e l’eleganza delle opere d’arte create fino alla morte di Alessandro nel 1323 a.C. era prerogativa dell’originalità degli artisti che avevano lavorato in condizioni eccezionali. Indebolita la struttura politica democratica, ridimensionata in senso assoluto l’influenza delle città nelle programmazioni architettoniche ed ornamentali, gli artisti arrivano alla consapevolezza della propria indipendenza.
Sulla strada indicata da Zeusi, l’emancipazione dagli orientamenti in base alle direttive pubbliche, incoraggia a superare l’obiettività della rappresentazione per un programma personale: Eufranore, Silanione e Lisippo, lo scultore preferito da Alessandro Magno, approfondiscono e collaudano ognuno il proprio sistema di proporzioni per la raffigurazione umana, in funzione di caratteristiche impressioni. Lisippo di Sicione è fra i tre, il più giovane. Fa parte di un centro artistico in cui è di tradizione la scultura atletica. Il suo operato è grandioso e le sue creazioni, secondo Plinio, raggiungono le 1500 unità. Scultore personale di Alessandro Magno, sopravvive al grande conquistatore e lavora fino agli inizi del nuovo secolo, il III a.C. Caratteristica dominante della sua arte è il movimento, un genere di fermento nervoso sempre presente nei suoi personaggi, anche quando sono scolpiti in atteggiamento di riposo. A Lisippo sono attribuite varie opere quali l’Apoxyòmenos, l’Eros con l’arco, i lottatori in bronzo di Ercolano, un Ermete che si stringe un sandalo, un Ermete in riposo di Ercolano, l’Ares in riposo Ludo visi, Posidone del Laterano, Posidone Chiaramonti, il tipo di Sileno con Dioniso bambino e la figura di Eracle nel bronzetto dell’eroe in riposo del Louvre.
Prassitele
Hermes con Dioniso fanciullo di Prassitele
Dinamico scultore greco, vissuto tra il 375 e il 330 a.C., Prassitele è figlio di un altro celebre scultore, Kephisodotos. Lavora esclusivamente nella città di Atene e predilige la lavorazione del marmo. Egli è uno scultore molto raffinato, in continua ricerca di un’eleganza del modellato, mai prima sperimentata. Nelle sue opere scultoree tende sempre a disciogliere i passaggi più carichi di intensità, tanto che le forme acquistano una morbidezza che addolcisce i forti caratteri di forza e nervosismo fisico, propri dell’età classica precedente. A tutto questo si aggiunge uno studio molto accurato sulla posizione particolarmente arcuata, nella quale le figure, pesantemente sbilanciate su una parte del corpo, finiscono per perdere il naturale equilibrio, avendo bisogno perciò di un sostegno qualsiasi cui appoggiarsi. Questo dava alle sue figure fiacchezza e quasi stanco rilassamento, che ne costituiva il tratto stilistico più tipico. Figure perciò tutte giocate su un impulso di raffinata decadenza che saranno di grande suggestione per tutta la produzione artistica successiva. Tra le sue creazioni, ormai quasi tutte mancanti all’appello e note solo in duplicato, vi fu anche la famosissima Venere Cnidia, che corrisponde alla prima raffigurazione, in senso assoluto, di nudo femminile. Questa figura scolpita fu il modello da seguire per tutta la produzione artistica di età ellenistica, che fronteggiò con più libertà il tema del nudo.
Per via filosofica si ricerca sempre la soluzione nell’invisibile. Fiatone stimola l’evasione nella direzione di una percettibilità superiore. Sulle sue orme Prassitele risale ai modelli ideali: le statue rendono palpabile tutto ciò che rimarrebbe occultato a uno sguardo limitato all’esterno. Le figure femminili, fino ad adesso ricordate soltanto in occasione della descrizione biografica dei protagonisti, assumono una funzione risolutiva: i corpi aggraziati di Frine e di Gratina sono testimonianza dell’incondizionata bellezza contemplata dall’anima prima di essere reincarnata. Il modello esemplare si ottiene attraverso il sentimento d’amore: ancora una forma di forte soggettività che rifugge dalla ricerca collettiva. Il corpo senza veli dell’Afrodite di Cnida è in un singolare spazio, nella coscienza che si presume la divinità abbia di se stessa. Di questo Olimpo, Prassitele è il sommo sacerdote.
Si regolarizzano i territori urbani, con impostazioni basate su criteri strutturali relativi agli assi ortogonali, rispettando le regole di configurazione dettate da Ippodamo di Mileto , artefice della nuova strutturazione della città del Pireo, che Temistocle ha integrato con Atene innalzando le “lunghe mura”, preservandole così dentro un unico apparato di difesa.
Le strutture di fortificazione, realizzate con blocchi massicci a forma scrupolosamente cubica, difendono e abbelliscono le città (bastioni di Messene, fortezza di Eleutere in Beozia). L’agorà, importantissimo centro politico e commerciale, prende un aspetto maestoso con l’edificazione di luoghi di culto, di colonnati (stoai), di grandissime fontane e di altre pubbliche opere monumentali.
APOLLODORO
Apollodoro nasce ad Atene verso il 180 a.C. Dal 160 a.C. è discepolo di Diogene di Babilonia, famoso filosofo storico e coadiuva Crisippo nella conduzione della scuola. Da Diogene apprende presumibilmente l’interesse per la grammatica e l’interpretazione metaforica dei miti.
Allorché Diogene viene inviato a Roma come ambasciatore (156), il suo allievo, tra il 156 e il 145, coopera con l’altrettanto famoso filologo Aristarco di Samotracia ad Alessandria, dedicandosi fra l’altro ad Omero ed alla commedia. Intorno al 145 a.C. deve lasciare per sempre Alessandria perché l’editto di Tolomeo VIII Fiscone respinge i dotti per motivazioni politiche e si rifugia a Pergamo, grande centro bibliotecario e filologico. Apollodoro muore ad Atene, sua città natale, presumibilmente fra il 120 e il 110 a.C.
Apollodoro è denominato il “pittore di ombre” (skiagràphos) in relazione ad un concetto evoluto a confronto con la skiagraphia dell’età geometrica. L’appellativo trova adesso spiegazione per via che il pittore «fu il primo a trovare lo sfumato e l’addensarsi dell’ombra» (Plutarco). Proprio da questa sua peculiarità tecnica si sviluppa quella critica di “pittore di parvenze”, per via della contemporanea attestazione data da Democrito, che non è l’oggetto ad agire con forza negli organi sensoriali e perciò a poter essere raffigurato, ma un’immagine priva di consistenza emanata dagli atomi che formano la materia.
L’età classica dell’arte greca che va dalla seconda metà del secolo quinto, fino al periodo corrispondente alla morte di Alessandro Magno (323 a.C.), raggiunge il massimo splendore, negli anni di Pericle.
Nell’Acropoli di Atene si innalzano le opere monumentali più importanti dell’arte del periodo classico, dal Partenone dorico, anche se reso ancor più elegante dall’interminabile fregio continuo, di Ictino, ai propilei di Mnesicle (nel quale i dettami del dorico si uniscono a quelli ionici), all’Eretteo di Filocle e al piccolo tempio di Atena Nike di Callicrate, stile nettamente ionico.
Tutti i santuari di rilevante interesse, appartenenti al mondo greco, si impreziosiscono con templi, tesori artistici, opere monumentali celebrative e votive. Gli studiosi della Grecia antica hanno chiamato “diadochi” i diretti eredi di Alessandro Magno: alle loro vicende, fino agli anni intorno al 301 a.C., coincidenti con la battaglia di Ipso, trova riscontro la persistenza della “maniera classica”, consegnataci in modo particolare da Lisippo, unico fra tutti i grandi scultori della stessa generazione a salvarsi dal Macedone.
Allontanatosi dall’Asia, arriva ad una colossale produzione di bronzi, circa 1500, nel più spazioso percorso mai tracciato da un scultore antico: nella Macedonia, nella città di Atene, nell’Acarna, nel Peloponneso, nella Magna Grecia ed in ogni dove, imponendo il proprio linguaggio espressivo istituendo scuole d’arte e moltiplicando i discepoli. Insieme a questi raggiungono la celebrità anche gli ultimi seguaci che avevano preso parte all’attività di altri maestri, anche loro reduci e testimoni di una perduta epopea, come i sopravvissuti dalla guerra d’oriente. Cefisodoto e Timarco, ambedue figli di Prassitele si identificano chiaramente nel sarcofago di Abdalonimo da Sidone, nel ritratto di Menandro e nella serie dei primi epicurei; Silanione aveva erudito Zeusiade, al quale dobbiamo la stupefacente immagine d’Iperide; di Eufranore è conosciuta la sua esistenza sia nella pittura che nella scultura con l’artista del bronzo Sostrato.
La scultura classica di Prassitele
In tutto ciò che ruota intorno al mondo greco antico, quello relativo alle opere scultoree classiche presenta notevoli differenze di linguaggio e soprattutto di qualità. Nella scultura del V secolo a.C., Policleto nobilita idealmente i corpi degli atleti e, nel Doriforo, compare un nuovo modello di corrispondenze proporzionali della figura umana, ragionato come una vera e propria costruzione architettonica, mentre Fidia getta le basi per nuovi concetti artistici nella magnificenza di combinare le scene, nella franca idealizzazione delle sue solenni figure, nella capacità di plasmare il panneggio, come testimoniano non solo le opere scultoree del Partenone (British Museum di Londra) ma anche le opere conosciute soltanto come copie, quale lo Zeus di Olimpia e l’Athena Parténos. Con lui lavorano attivamente Agoracrito (il celeberrimo artefice della Nemesi di Ramnunte), Alcamene (creatore dell’Afrodite dei giardini) e Cresila. Appartengono alla concezione manieristica postfidiaca Callimaco, che probabilmente ha realizzato i rilievi dal “panneggio bagnato” alla balaustra del piccolo tempio di Atena Nike, ed anche Peonio di Mende. Scultori ionici realizzano opere intorno al 550 a.C., come i più antichi sarcofagi di Sidone (attualmente custoditi ad Istanbul nel Museo archeologico) e, più tardi, opere in rilievo e le opere statuarie del monumento delle Nereidi di Xantos (attualmente a Londra nel British Museum).
Gli artisti più importanti
Nel IV secolo a.C. c’è stata una reazione agli ideali fidiaci da parte di alcuni grandi scultori, dando più importanza al valore dei sentimenti umani. I più significativi sono Prassitele autore del famoso Hermes, Lisippo le cui opere sembrano possedere una fortissima ed interminabile energia di movimento e Scopa autore delle opere scultoree nel tempio di Atena Alea a Tegea. Con questi tre artisti e principalmente con Lisippo vengono gettate le basi per l’introduzione all’arte ellenistica. La fama di costoro è testimoniata dalle attendibilissime fonti classiche e da molteplici riproduzioni della loro statuaria, che ci permettono di capire soprattutto le loro caratteristiche personali. Altri artisti importanti sono Timoteo (autore delle sculture del tempio di Asclepio a Epidauro), Cefisodoto padre di Prassitele (suo è il gruppo Irene e Pluto), Leocare (autore del Ganimede rapito dall’aquila), Silanione, Briasside (autore della famosa statua di Serapide ad Alessandria) famoso soprattutto per i suoi ritratti, e Eufranore. Molte purtroppo sono le meravigliose opere anonime che ci sono pervenute dai secoli V e IV a.C., soprattutto quelle attiche a tematica funeraria, oggi custodite nel museo nazionale di Atene.
Busto di Serapide Museo Pio-Clementino, Sala Rotunda
La pittura e la ceramica del mondo classico greco
Le grandi personalità artistiche dell’età classica e le loro peculiarità, ci vengono consegnate da autorevoli fonti antiche, in maniera indiretta dalle tematiche rappresentate nella ceramica e da raffigurazioni pittoriche del periodo, e anche da mosaici di età successive. Superate le prime difficoltà dello scorcio già intorno alla fine del sec. VI a.C., si cerca di studiare a fondo, nel V secolo, le tecniche legate al chiaroscuro (Apollodoro skiagráphos, alias pittore delle ombre) e agli effetti prospettici (Agatarco scenografo). Nomi celeberrimi sono quelli di Zeusi (di cui abbiamo già parlato) e Parrasio, che operano attivamente soprattutto ad Atene intorno alla fine del sec. V. Nel secolo IV sembra prender piede il tema realistico e la pittura stesa principalmente su tavole. Il pittore che più spicca è Apelle, attivo presso la corte di Alessandro Magno, mentre altri personaggi famosi sono Aristide, Pausia e Nicia. Nell’età classica le opere in ceramica attica, a partire dal VI a.C., rappresentano il principale prodotto commerciale che regola il traffico del mondo artistico greco. Questo prodotto è destinato però a scomparire del tutto alla fine del sec. IV. Dal 450 a.C. nascono in Italia e principalmente in quella meridionale, molti laboratori artigianali locali di vasi raffiguranti le stesse tematiche attiche con figure rossastre (vasi del tipo protoitaliota), che nel secolo IV (vaso italiota) assumono i propri caratteri distintivi. Anche per la ceramica italiota c’è il momento del tramonto, che avviene intorno alla fine del secolo IV a.C. Nell’età ellenistica l’arte greca si diffonde con forza sempre maggiore per tutto il Mediterraneo. I centri nevralgici artistici si spostano da occidente ad oriente della Grecia, interessando non più Atene ma Alessandria, Pergamo ed Antiochia.
Ercole Farnese – Copia in marmo di Glycon Ateniese, dall’originale in bronzo di Lisippo del 320 ca. AC: , h.317 cm. Napoli, ( Museo Archeologico Nazionale)
Hermes in riposo -( Mercurio ), Statua in bronzo, riproduzione romana da un originale di Lisippo. altezza.105 cm. – ca. 330 AC.-ca.320 AC. Napoli – Museo Archeologico Nazionale.
L’immagine di Tiberio (14-37 d.C.) rispetta le caratteristiche di classicismo che il suo predecessore ha impostato.
Caligola (37-41 d.C.) si differenzia per la morbidezza ed il delicato andamento del chiaroscuro sul volto e il soffuso ombreggiamento nelle orbite.
Claudio (41-54 d.C.), grande esperto d’arte italica antica ed etrusca, riflette molto sul divario degli elementi costitutivi l’espressione artistica romana, riferendosi, in un suo discorso, all’importanza iniziale che hanno avuto i re “non romani”.
Numa Pompilio era sabino, Tarquinio Prisco nasceva da madre etrusca e padre di Corinto; oltre all’apertura verso la nobiltà straniera, l’Imperatore ricorda il degno e prestigioso esempio dato da Servio Tullio – nato da una prigioniera – la cui figura assume una costruzione monumentale incentrata su vasti piani, alla “maniera” degli eredi di Alessandro.
Nerone (54-68) rinuncia sin dal primo periodo alla naturale ed asciutta plasticità tramandata da Augusto: la sua barba, completamente fuori dai canoni, è ispirata ai filosofi dell’antica Grecia. Il volto risulta essere, al modellato, di delicata carnosità. Dall’espressione degli occhi si evidenzia uno sguardo che si annida profondamente nell’orbita oculare e tutte le ombre conferiscono all’immagine la caratteristica espressione di una personalità fortemente perturbata.
Nell’arte pittorica parietale incomincia a prendere forza il quarto stile, già espresso nella casa “Vettii”, a Pompei, prima del terremoto del 62. Rimane la simmetria della composizione nella tradizione di scene coreografiche relative al secondo stile, ma dalla stessa struttura si svincola un soggetto architettonico di grandissimo impulso verticale che apre tutta la parete allo scenario compositivo: le immagini che vi sono immerse conferiscono un clima spirituale, proprio di un ambiente decorato, i tratti grafici evidenziano una raffinata esperienza, la composizione prospettica è chiara e la qualità coloristica ottima.
Nerone, Museo Nazionale RomanoCasa Viettii di Pompei
Nell’insieme spaziale – nel passaggio dai primi ai secondi piani, ai terzi e fino allo sfondo – le tensioni aumentano in modo abbastanza evidente. Un fattore di vitale importanza è la luce che in questi affreschi gradua il consolidamento della materia, dal realismo presente nelle nature morte poste sulla balaustra visibile nei primi piani, alla trasparenza delle ombre che ammorbidiscono i particolari nello sfondo. All’entrata della casa è rappresentato un Priapo itifallico (Figura a lato), augurio di fecondità e benessere: il dio della procreazione è raffigurato nell’atto di pesare su di una bilancia il suo smisurato fallo, e il contrappeso è una borsa piena di denaro. Anche in questa raffigurazione i particolari dei secondi piani sono attenuati e soffusi per sparire in uno sfondo a tonalità intensa e fredda, allo stesso tempo.
Pianta della Domus Area
Più tardi, dopo lo sconvolgimento dell’economia e dei nuovi rapporti con il senato, il comportamento politico di Nerone prende un orientamento ellenistico, e la figura del volto si trasforma nell’arricciarsi della capigliatura e della barba. Il volto acquista adipe in corrispondenza delle guance, il labbro inferiore diventa tumido e sporgente.
Lo sguardo si dirige verso l’alto come nello schema di Alessandro. All’entrata della “Domus Area” – realizzata da Severus e Celer con le decorazioni di Fallabus – lo scultore bronzista Zenodoros crea il colosso di Nerone, alto 110 piedi (forse 102 o anche 120 piedi come sostengono altre fonti), con corona radiata del Sole.
Seneca arriva al suicidio (65 d.C.): la sua filosofia lo porta ad un altissimo livello di contemplazione, tanto da fargli ritenere che Roma fosse una semplice nullità nell’universo ed il suo esercito simile a « formiche che si affaticano in uno spazio irrisorio».
Periodo dei Flavi
Domus Area
Dalle figure è chiaro l’interscambio tra i vari stadi di sviluppo, che ha come obiettivo sempre l’auto-rappresentazione imperiale: nel realismo degli ultimi periodi repubblicani, le richieste del ritratto destinato ai nuclei familiari si mantengono suggestionate soprattutto dall’ambiente militare, dove il principe ha compiuto la sua formazione, nel frattempo le icone pubbliche acquisiscono, dal rigore proprio del volto, una compostezza del tutto classica. Lo sviluppo della coscienza teorica nel campo pittorico parietale del periodo neroniano, viene confermata dall’ampliamento dei valori impressionistici nella decorazione, con l’impiego dello stucco: una tecnica congeniale alla configurazione generale del quarto stile, che conferisce all’opera una rarefatta realtà.
Arte di Roma: Giulio Claudi, Flavi, Traiano, Adriano, Marco Aurelio
Se consideriamo gli aspetti decorativi di una villa di Stabiae (l’antica città era ubicata nei pressi di Castellammare di Stabia), in fase di completamento al momento dell’eruzione vulcanica del 79 d.C., il riquadro con la raffigurazione di Narciso, evidenzia il grande virtuosismo dell’artista sotto tutti i punti di vista: dalla precisione dell’insieme architettonico, al movimentato graffito raffigurante il volto riflesso del giovane, alla delicatezza dell’amorino alla sua sinistra con in mano una fiaccola, all’’elegante movimento del braccio destro; una delicata degradazione che passa attraverso l’insieme del fogliame, la gamba destra del giovane, e tutti gli elementi che dai primi piani passano a quelli successivi. In questo stucco sorprende soprattutto la ricca variazione della luce, ora radiosa, ora morbida, ora tagliente, come se gli effetti non venissero aiutati dall’illuminazione esterna ma sgorgassero direttamente dalla struttura interna dello stucco, alla stessa stregua delle immagini pubblicitarie su pellicole illuminate dal retro.
Arco di Tito foto presa dal sito www.romasegreta.it
L’arte flavia si rivela assai libera anche su scala monumentale e si evidenzia nei rilievi dell’arco di Tito (arco trionfale posto sulle pendici nord del Palatino), costruito da Tito Flavio Domiziano (dall’81 al 96 d.C.) al suo avvento, per manifestare simbolicamente, con una notevole opera, la vittoria sulla Giudea, celebrata un decennio prima da suo fratello Tito e suo padre Vespasiano. Nella lastra a nord è raffigurato il solo Tito sulla quadriga d’onore, con vicino la dea Vittoria atta ad incoronarlo, mentre la dea Roma conduce i cavalli. Segue quindi la personificazione del popolo di Roma e del Senato.
La profondità della scena viene contrassegnata dai fasci dei littori, con le svariate inclinazioni. L’altro fregio raffigura un episodio storico che segna la gloria di un’era. Si assiste alla scena del trasporto di oggettistica sacra prelevata dal tempio di Gerusalemme: l’Arca dell’alleanza, il candelabro a sette bracci e le trombe di Gerico. Le tabelle erette da altri portatori indicavano le città espugnate. A differenza dell’Ara Pacis (altare dedicato ad Augusto, 9 a.C.), l’allineamento non è costante, ma c’è nelle due scene una curva abbastanza evidente del percorso,con la prominenza al centro, dove la parte scultorea è in aggetto nei confronti del bassorilievo raffigurante le teste in lontananza. Si evidenziano nell’opera superfici con vigorosi contrasti di luce ed ombra.
Arco di Tito foto presa dal sito www.romasegreta.it
La glorificazione di Roma e del suo coraggioso popolo supera il rigore scrupoloso del disegno. Rifacendosi all’impeto epico ellenista, l’artista scuote la forma rendendola tumultuosa, e conferisce a tutto l’insieme un respiro all’espressionismo. La struttura della composizione interna è forte e vigorosa, nonostante la naturalezza dell’anatomia dei portatori e dei cavalli (volutamente al centro per conferire all’immutabilità della natura il segno di un destino glorioso) che si sollevano nello spazio.Le pochissime immagini dell’Imperatore Tito Flavio Domiziano, scampate alla distruzione della statuaria (damnatio memoriae) decretata dal Senato dopo la sua uccisione, sono emblematiche per la loro varietà e per lo sviluppo artistico del periodo imperiale, essendo state concepite dalla felice combinazione del realismo tracciato da Vespasiano con i richiami alle varie fasi dell’arte greca.
Periodo di Traiano
Nerva (Marco Cocceio Nerva, 96-98 d.C.) istituisce il sistema dell’adozione nella successione imperiale. La sua immagine evidenzia un’armoniosa asimmetria ed un aristocratica eleganza.
Traiano, bronzo, Museo Archeologico di Ankara
Traiano (Marco Ulpio Nerva Traiano) ricerca un realismo concreto, monumentale, che conferisca l’energica fermezza del condottiero nel suo inflessibile equilibrio formale, sormontando, in un’altra direzione, l’incertezza iconografica di Domiziano. Tacito riflette sui figli dei liberti e li vede innumerevoli tra l’aristocrazia, i cavalieri, ed anche tra i senatori, proprio nel periodo di Traiano, primo imperatore proveniente da un Paese straniero (la Betica, sud della Spagna). Dopo un secolo fatto di glorie e di crisi, il regime concentra con più forte energia le proposte più svariate per l’affermazione di Roma, incarnata nell’aspetto del combattente, tanto dai comuni cittadini quanto dalle istituzioni o dallo stesso Imperatore: tutte le cose, tutti i comportamenti ed tutte le mode divengono subalterni ed asserviti alla raffigurazione della forza.
Scena 24 della Colonna Traiana
Si diffonde anche nel taglio dei capelli la moda della “frangia militare”. Il foro di Traiano (107-113) fissa nella monumentale immortalità di Roma il ricordo fuori scala del potente accampamento, sistema di attacco in prima linea. Costituito da un ampio piazzale con portici che camminano ai due lati, chiuso in fondo dalla basilica disposta alla stregua dei “principia del castrum”, ed ornato con una maestosa statua equestre di Traiano al centro del piazzale.
Scena 9 della Colonna Traiana
Le biblioteche sono messe al posto degli archivi legionari e la Colonna in uno stretto cortile tra le biblioteche, luogo dove avvenivano gli onori delle insegne al campo. Il complesso ornamentale conferisce energia alla metafora con le immagini dei condottieri entro scudi all’esterno, la quadriga trionfale all’entrata, con una moltitudine di barbari incatenati nella grande piazza, vittime e testimoni allo stesso tempo di così tanta gloria.
Periodo di Adriano
Il progetto del Foro di Traiano è attribuito all’architetto Apollodoro di Damasco, entrato in disgrazia con l’avvento di Adriano (Publio Elio Traiano Adriano, 117-138 d.C.) per aver espresso critiche alquanto severe al progetto del tempio di Venere e Roma, ideato dallo stesso Imperatore. Il duplice edificio, di gigantesche proporzioni, ricollega palesemente la sacralità di Roma alla dea che l’ha sempre protetta.
Colonna Traiana: particolare della Vittoria
La ricostruzione del Pantheon (il primo era il Pantheon agrippino costruito nel 27-25 a.C., distrutto da un incendio, ricostruito da Domiziano e distrutto una seconda volta da Traiano) con la maestosa cupola, è l’altro segnale della grandezza ed dell’immortalità di Roma, tracciato da Adriano ed arrivato con forza ai nostri giorni. Secondo fonti accreditate, il nuovo progetto è attribuibile allo stesso Apollodoro da Damasco.
La circolarità regolare dell’interno, alla stregua di una sfera inscritta in un cilindro, ritmato dalle “case” degli dei planetari ed il frontone decorato con l’aquila in bronzo circoscritta da una corona, assommano la simbologia di “Aion l’Eterno, a cui viene abbinato l’epiteto stesso di Pantheios. Queste imponenti architetture affermano l’importanza di Roma a commento dell’incessante viaggiare di Adriano (fonti autorevoli lo fanno di origine iberica) che si orienta all’unificazione paritetica del dominio romano.
Periodo di Marco Aurelio
La configurazione del sistema adottivo, che ancora offre all’Impero di Roma la serie dei governanti più saggi che abbia mai avuto il grande Occidente, è evocato da Marco Aurelio (Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto 161-180 d.C.) nel fregio del Monumento Partico, eretto ad Efeso in onore di Lucio Vero, scomparso immaturamente nel 169, durante il rientro a Roma. Sulla lastra, lunga 70 metri, appaiono scene belligeranti con incisive raffigurazioni di battaglie, di equitazione, di situazioni di caccia e di vittorie.
Gruppo allegorico della successione imperiale per adozione
Sul lato destro appare Adriano, al centro è raffigurato Antonino Pio che ha una mano sulla spalla di un fanciullo (Lucio Vero) e sulla sinistra Marco Aurelio ancora giovane. In questo fregio compaiono, come in una rappresentazione funeraria, tre generazioni. Sull’onda neo-ellenica del plasticismo di Adriano, viene ritrovata la malinconica suggestione del gruppo funerario per fornire umanità alle ideologie imperiali. Il governante filosofo affianca il pensiero e la riflessione all’attività bellica in difesa dei confini: correda di pragmatismo romano la considerazione teorica.
Alla stessa stregua, l’arte figurativa nei rilievi che rappresentano le sue rituali azioni (oggi custoditi, alcuni nel Museo del Palazzo dei Conservatori, altri riportati nell’Arco di Costantino), cerca una solida presentazione del costume: umanità verso gli sconfitti, la gloria ed il sacrificio che si deve agli dei, il trionfante ritorno dalla guerra, la fase di purificazione dei soldati, l’investitura di un principe “non romano”, il discorso all’esercito, l’esibizione dei prigionieri, la sottomissione dei condottieri sconfitti, l’assegnazione delle offerte alla popolazione e, infine, una nuova spedizione bellica.
L’architettura greca viene mobilitata da Vitruvio, per offrire dimore belle ed accessibili alle famiglie, monumenti, basiliche, portici alla vita civile e templi maestosi agli dei. Tutte le edificazioni di pubblica utilità assumono un significato finora sconosciuto in tutto il bacino del Mediterraneo, caratterizzando, in un certo senso, la struttura dell’intero Impero.
Le nuove tecniche sempre più perfezionate e la verifica dei nuovi ritrovati nel campo dell’architettura, hanno origine con le magistrature urbane, che esercitano il proprio ruolo presso i distretti dipartimentali degli edili.
Mossi, nel periodo della Repubblica, dal forte desiderio di affermazione sociale, popolarità e successi elettorali della committenza, gli architetti provenienti dalle regioni orientali (es. Quinto Muzio) mettono a punto strutture di lavorazioni atte ad ampliare ed aumentare il prodotto, come: l’impiego della centina in legno per la costruzione di archi che poi viene ripulita e riutilizzata, le volte costruite con l’impiego del calcestruzzo e il basolato stradale, disposto uniformemente su letti di drenaggio (il basolato stradale è un selciato fatto a lastre di pietra lavorate sulla parte esposta).
Nel campo dell’economia schiavistica prende forza un’arte nata dal forte senso organizzativo della popolazione latina. La tendenza si orienta verso la riduzione progressiva della mano d’opera qualificata, per dare ulteriore spazio al lavoro polivalente. Nasce la muratura a sacco, dove l’impasto viene gettato tra due paramenti costruiti con piccoli blocchi preventivamente spianati su una faccia.
Nel periodo di Augusto compare il mattone, prodotto più semplice e versatile, che viene prodotto in svariati esemplari per soddisfare le innumerevoli esigenze di edificazione. La sua fabbricazione avviene in grandi stabilimenti con l’impiego di una ingente quantità di manovali senza nessuna specializzazione, seguiti e controllati da pochissimi specialisti nelle operazioni più importanti, quali la decantazione e il trattamento del prodotto argilloso, il riempimento e la pressatura nelle forme, i procedimenti di essiccazione, i tempi di cottura e condotta dei forni, lo smistamento, la stagionatura e la consegna.
La costruzione del mattone è monopolio esclusivo della casa regnante e su di esso viene impresso il timbro che garantisce qualità e provenienza. Le opere vengono promosse personalmente dalliimperatore, che pone il suo nome nella dedica monumentale, come benefattore del popolo “per sempre”.
Roma ed il suo sguardo
Il fine celebrativo si evidenzia soprattutto dalle figure individuali, nelle quali la tradizione ellenica predilige l’affermazione egemoniaca: “Altri plasmeranno con più grazia bronzi da sembrare viventi e sapranno trarre dal marmo volti dotati di vita … tu Romano, ricorda, reggerai i popoli col tuo imperio; queste sono le tue arti, imporre la pace, risparmiare i vinti e debellare i superbi» (Virgilio nell’ Eneide, 847 – 853, VI).
Lo sguardo di Roma ci accompagna in ogni museo ed in ogni luogo archeologico, le figure dei protagonisti, che sono la ragione dell’intero sistema – dal più alto regnante al più umile dei magistrati – e le espressioni di donne ed uomini, ci mostrano che sono ben consapevoli di appartenere alla migliore delle civiltà.
Nella statuaria celebrativa e, in particolare nella figura ritrattistica, la committenza isola e rende assoluta la forma encomiastica che nel mondo ellenico si manifestava rispettando tradizioni, linguaggi, tecniche, scuole di pensiero e ambienti.
A Roma, museo universale dalla nascita dell’ellenismo, si attinge in ogni momento agli schemi di un qualsiasi periodo della storia dell’arte, configurandoli – su misura – a seconda di ogni specifica opportunità. La forza di questo intervento, che viene sempre concertato al “filo conduttore” della creazione popolare, segna nel figurativo aulico la continua modulazione del linguaggio, e quindi del gusto, all’avvicendarsi delle varie dinastie e delle loro singole figure rappresentative.
La pittura in tre grandi periodi
Le testimonianze che ci arrivano dalla pittura romana provengono prevalentemente dalle dimore di Pompei ed Ercolano.
Le tematiche raffigurate con tecnica ad affresco parietale, tratte generalmente dalla mitologia, richiamano scene di forte vitalità e figure decorative colme di significato. La gradevole vibrazione cromatica dà al paesaggio un buon effetto di profondità, e alle immagini, un ricco movimento e plasticità.
Dalle figure risulta evidente quell’interscambio tra i vari livelli di ricerca, che ha sempre come obiettivo l’auto-rappresentazione del personaggio, del signore, del principe, dell’Impero: nel realismo della tarda Repubblica, la committenza del ritratto destinato alla famiglia persiste condizionata prevalentemente dall’ambiente militare, dove il principe ha avuto la sua formazione, intanto le icone pubbliche acquistano dalla durezza propria del volto una compostezza puramente classica.
Nel periodo della Repubblica è molto impiegata la pittura parietale e le pareti sono suddivise come segue: una parte per lo zoccolo, una per il riquadro e una per la cornice, mentre i pilastri vengono differenziati, tra le altre cose, dalle caratteristiche variazioni tonali che imitano il marmo, e sono prive di raffigurazioni sceniche.
Dal periodo di Augusto invece, viene ad affermarsi la raffigurazione di architetture finte che simulano vasti spazi ambientali (stile architettonico). In seguito c’è un ritorno alla parete con cornici decorate, e al posto delle imitazioni marmoree vengono raffigurate immagini ottenute da tocchi precisi e decisi, su fondi monocromatici; le tematiche sono di genere, mitologiche e paesaggistiche (stile ornamentale).
Nella terza fase dell’Impero, si ritorna alla raffigurazione architettonica in prospettiva, ma con una più ricca e particolareggiata decorazione (stile illusionistico). Oltre alla tecnica ad affresco, in questo periodo, già esiste quella del mosaico, che viene impiegata anche per la pavimentazione. La tematica, in senso generale, è la solita (carattere mitologico) ma non mancano soggetti storici e ambienti naturalistici. Anche la tavola, nella Roma Imperiale, è largamente impiegata per la realizzazione di opere pittoriche.
Tre sono le principali tecniche del mosaico romano
opus tessellatum che impiega piccole tessere di colore bianco e nero per la configurazione geometrica, compresa l’incorniciatura.
opus vermiculatum che impiega piccole tessere colorate, posizionate in maniera da seguire la conformità delle figure rappresentate.
Opus sectile che impiega piccole lamelle colorate di materiale marmoreo, ritagliate e modulate a seconda della particolarità delle forme raffigurate e incastrate ad intarsio.
Le grandi costruzioni romane
Sappiamo che le città romane, risultano essere molto influenzate dall’arte ellenistica. L’arte romana compie pochissimi progressi in fatto di creatività, e il suo splendore deriva sostanzialmente dalle civiltà che il grande Impero tiene sotto il suo dominio.
Quasi tutti gli artisti che operano a Roma sono greci, e i romani amanti dell’arte, commissionano opere originali o copie perfette dai maestri greci. Soltanto quando Roma diventa la dominatrice universale, il percorso dell’arte subisce un significativo cambiamento.
Gli artisti assumono altri nuovi compiti e le loro tecniche e linguaggi vengono mutati in modo significativo, soprattutto nel campo dell’architettura. Molte opere dell’ingegneria civile romana sono arrivate ai nostri giorni ostentando ancora imponenza e maestosità.
il Colosseo
Basti soltanto pensare alla vista che Roma ci offre del suo passato per farci sentire piccoli esseri insignificanti. L’edificio più maestoso e famoso è il Colosseo, una particolare costruzione romana che è stata in tutte le epoche l’orgoglio della popolazione ed ammirata dalle civiltà di ogni tempo e luogo. Nel suo complesso, il Colosseo, è strutturalmente funzionale con tre ordini di archi sovrapposti che sorreggono la struttura delle gradinate nella parte interna del grande anfiteatro. Sugli archi, i progettisti romani, hanno seguito le forme classiche, allineandosi ai tre stili che i greci impiegavano per la costruzione dei loro templi.
Il primo ordine di archi ha uno stile che può essere definito come una derivazione di quello dorico – ci sono anche le metope (formella del fregio dorico) e triglifi (decorazione del fregio) -, il secondo ha mezze colonne ioniche, il terzo colonne corinzie come pure il quarto. Questi ordini greci combinati con le strutture romane eserciteranno nei secoli a venire un’influenza non indifferente sugli architetti di ogni epoca. Tale influsso è reso evidente dalle numerose testimonianze che giornalmente troviamo in molte nostre città italiane. Una costruzione che ha esercitato l’influenza più duratura è quella dell’“Arco Trionfale” che l’Impero romano ha eretto in tutto il suo dominio, non solo in Italia, ma anche in Francia, Asia e Africa.
Con accorgimenti tecnici, i romani riescono a migliorare le varie costruzioni ad arco ed a volta, arrivando alla realizzazione di una delle più mirabili costruzioni di tutti i tempi, il Pantheon o “Tempio di tutti gli dei” (Sole, Luna, Saturno, Venere, Mercurio, Giove, Marte), che verrà salvato dalla distruzione dell’uomo con la trasformazione in tempio-chiesa nel primo periodo dell’era cristiana. Nel suo interno, una vastissima sala rotonda con volta, e al centro di essa un’apertura a circolo, dalla quale si può scorgere il cielo. Non ci sono altre aperture e quella proveniente dall’alto dà una sufficiente illuminazione naturale. Anche per il contributo di questa caratteristica illuminazione, la costruzione comunica al visitatore una sensazione di grande tranquillità ed una serena armonia.
Il ritratto
Interno del Pantheon
È tipico della cultura romana attingere dall’arte greca, e per quanto riguarda l’architettura questo serve soprattutto per adattarla alle proprie concrete esigenze, senza però tralasciarne alcune importanti in altri campi.
Una delle principali necessità è la somiglianza del ritratto, che ha sempre svolto un’importante funzione nei primi sviluppi della religione romana, nei periodi in cui, nelle celebrazioni funebri, era consuetudine portare nei cortei immagini, plasmate in cera, raffiguranti i volti degli antenati. Questo per la tramandata credenza, secondo la quale, la salvezza dell’anima veniva in ogni caso conseguita dalla somiglianza, proprio come avveniva nell’antico Egitto.
In seguito, quando Roma diventa imperiale, il ritratto dell’Imperatore continua ad essere considerato con sacro timore: ogni cittadino romano deve dare fuoco all’incenso dinnanzi a quella figura, in segno di sottomissione, affetto e fedeltà, ricordandosi che la persecuzione cristiana deriva dal loro rifiuto di adesione.
È importante ricordare che per i romani, la somiglianza è più importante che per i greci, nel senso che si permette agli artisti di riportare nell’opera tutti i caratteri distintivi del soggetto, così come sono e il più verosimilmente possibile, senza abbellimenti come nelle lusinghiere figure dell’arte greca.
Quello che oggi possiamo dire con certezza riguardo i ritratti di grandi esponenti di Roma, non lo possiamo fare con le figure greche: chiunque abbia osservato le immagini di Augusto, Pompeo, Tito e Nerone, può essere certo di averlo conosciuto nella sua reale verosimiglianza, come effettivamente era. Tuttavia nessuno di questi ritratti mostra segni di meschinità.
Continuando l’analisi del cratere a calice, in quello con la scena della cattura di Dolone da parte di Ulisse ed un suo compagno, possiamo osservare il senso dell’eleganza nel tratto, dell’armonia nei movimenti delle figure e l’evidente senso di spazialità.
Nelle figure, ogni gesto è affine all’atteggiamento generale del corpo: la figura centrale, collocata davanti a due alberi, ha il piede sinistro che poggia sul terreno con la sola punta delle dita, mostrando una prospettiva frontale, la gamba destra è vista di profilo, il tronco in un tre quarti, mentre il viso è ripreso in un altro tre quarti.
I piedi, la lancia e l’arco della figura centrale, si trovano davanti agli alberi. Le altre immagini sono raffigurate con lo stesso criterio ed aiutano a dare il senso della profondità anche se collocate sullo stesso piano prospettico, perché parte dei loro arti sono nascoste dagli stessi alberi.
Pittore di Dolone: Cratere a calice – Particolare della scena in cui Ulisse cattura Dolone (British Muesum of London)
Pittore di Dolone: Cratere a calice – Particolare della scena in cui Ulisse interroga l’ombra di Tiresia (Bibl. Nationale, Paris).
Un’altra opera del “Pittore di Dolone”, degna di essere ricordata, è la decorazione del cratere (Parigi, Bibl. Nationale) con la rappresentazione di Ulisse che interroga l’ombra di Tiresia. Ulisse è raffigurato seduto su una roccia con le gambe in posizione di tre quarti e con un accenno di scorcio per quanto riguarda le cosce e l’avambraccio destro. Anche il piede sinistro è mostrato in scorcio ed il disegno ne rispetta la sua grandezza prospettica (maggiore). Si osservi anche il suo pugnale che ha una lunghezza superiore a quella del fodero che dovrebbe contenerlo. Ai suoi lati stanno i due compagni con lo sguardo diretto verso di lui, simmetricamente opposti e, nonostante la loro collocazione sullo stesso piano, c’è un deciso senso di spazialità per via delle loro ridotte dimensioni: basterebbe immaginare Ulisse in piedi per avere un’idea della differenza di altezza e quindi del senso di profondità.
Gli accenni nell’impiego di quella che oggi chiamiamo “prospettiva”, incominciano a prendere forza in questo periodo dell’arte classica, ma sono ancora sporadici ed appena delineati.
La tecnica si sviluppa nel corso del VI secolo a. C. e non tutte le scuole perseguono gli stessi principi. La scuola apula, ad esempio, segue e sviluppa un linguaggio di carattere prettamente decorativo con forme espressive leggere e superficiali come quelle del “Pittore di Midia”, di cui abbiamo già parlato nelle precedenti pagine. Per questo motivo alcuni studiosi non sono del tutto convinti degli influssi e degli sviluppi stilistici del “Pittore delle Carnee”, fino a poco tempo fa considerato tarantino ed oggi avvicinato al “Pittore di Palermo”, il cui disegno, armonioso e gentile, conferisce plasticità ed espressività ai soggetti; caratteristiche queste di cui difettano proprio i temi attici del laboratorio Midia.
A monte di questi tentennamenti sta il fatto che alcune tematiche, ispirate dal gruppo di Midia, seguono, in un certo verso, lo stesso linguaggio, come nel cratere a volute (Museo Nazionale di Taranto), nel quale, osservandone bene i dettagli, ci si accorge che vengono corretti i vari difetti con un disegno più rigoroso e con ornamenti avvicinabili, in qualità, a quelli dello stile fiorito attico. Sofisticazione ed eccesso di manierismo sono completamente assenti.
Pittore delle Carnee: Cratere a volute – Particolare della scena con Dionisio e le menadi danzanti (Museo Nazionale di Taranto)
Nella foto riportata è rappresentata la scena con Dionisio che osserva le menadi danzare. I volti delle tre figure sono carichi di espressività ed i loro atteggiamenti sono in armonia con il contesto generale, nel quale si respira un’atmosfera di concreta realtà. Dionisio, seduto su una roccia, appare rilassato ed affascinato dalla musica e dalla danza delle menadi.
La menade suonatrice, intenta all’esecuzione della melodia, guarda con attenzione la sua compagna estasiata che ostenta eleganza ed armonia nel movimento danzante. Tutta la scena evidenzia comunque un gusto che segue la linea e lo spirito della pittura italiota.
Nei primi decenni del secolo IV, anche i pittori dell’area tarantina incominciano a seguire, ma con grande cautela, tutto ciò che ruota intorno alla grande pittura, ed è questo il periodo in cui le grandi tematiche ripropongono scene tratte dal teatro. Tuttavia la differenza con la ceramica vascolare delle zone lucane rimane evidente. La scena descritta nello stamno del “Pittore di Arianna”, dove è raffigurata la stessa Arianna abbandonata da Teseo, è ricca di spazialità e di movimento, ma i piani, pur distinguendosi gli uni dagli altri, fluttuano dalla superficie alla profondità: basti immaginare diverse dimensioni reali della figura femminile centrale per vederla spostarsi nei vari piani. Inoltre, le figure, elaborate all’eccesso, difettano di spontaneità.
Pittore di Arianna. Particolare dello stamno con la scena di Teseo che abbandona Arianna (Museum of Fine Arts, Boston)
Pittore delle Eumenidi: La purificazione di Oreste (Louvre, Parigi)
Altro artista della ceramica da prendere in considerazione per l’eleganza delle curve, per la ricchezza espressiva e per il suo saper conferire concreta realtà al contesto generale, è il Pittore delle Eumenidi. Il suo cratere a campana (Louvre, Parigi), nel quale è rappresentata la scena dove Apollo purifica Oreste a Delfi, dimostra l’importanza che questo artista dà alla spazialità ed alle masse volumetriche.
Si mettano a confronto i due gruppi – entrambi formati da tre figure – e, nonostante le esatte dimensioni dei volti e, l’assenza delle ombre e delle sovrapposizioni, quello sulla destra risulta chiaramente appartenere ad un piano superiore. Questo effetto sembra dovuto esclusivamente ai doppi scorci delle gambe delle due Erinni dormienti, che penetrano in profondità.
Non manca il gusto per lo stile fiorito che continuerà a persistere ancora per molto tempo, sviluppandosi in nuove tendenze che caratterizzeranno lo “Stile ornato”.