La rappresentazione dello spazio e della luce nella pittura fiamminga

La rappresentazione dello spazio e della luce nella pittura fiamminga

 Pittura fiamminga

(continua dalla pagina precedente)

Come i pittori toscani del Quattrocento, anche i fiamminghi dello stesso periodo effettuavano approfondite ricerche circa la rappresentazione della realtà. Anche nelle Fiandre gli sviluppi ebbero come punto di partenza il riferimento alle raffigurazioni tardogotiche, che ben presto i pittori locali, in particolare Jan van Eyck, seppero integrare con vedute di interni e paesaggistiche, dove la luce diventava l’elemento armonizzante di tutto il contesto, definendo con efficacia sia le figure protagoniste che quelle secondarie e gli oggetti ad essi subordinati.

Stava così crescendo un certo interesse verso la volumetria e la spazialità, cose che riuscivano ad abbattere completamente quella continua parvenza da favola delle raffigurazioni tardogotiche, sospese e astratte. La dilatazione spaziale della pittura fiamminga, però, è assai diversa da quella degli artisti toscani. Questi ultimi improntavano la prospettiva lineare con linee di fuga dirette verso un unico centro, all’altezza dell’orizzonte, dove tutto diventava perfettamente strutturato ed ordinato, con proporzioni esatte in ogni punto e  in un’unica fonte luminosa che delineava anche le rispettive ombre. Con tale strutturazione il fruitore dell’opera rimane al di fuori della scena, avendone una visione chiara e totale. Nella struttura compositiva fiamminga, invece, il fruitore della visione è compreso illusoriamente entro la volumetria della rappresentazione, in virtù di alcuni espedienti come l’impiego di più punti in un orizzonte non necessariamente ben collocato ma generalmente più alto, ove le molteplici linee di fuga convergono in gruppi (a seconda dei punti impiegati all’orizzonte) conferendo all’ambiente quel senso illusorio “avvolgente” pronto a rovesciarsi sullo stesso spettatore (si veda la Madonna in una chiesa gotica“, in cui la Vergine risulta esageratamente grande rispetto all’ambiente che la circonda).

Nelle loro opere la scena raffigurata avviene – salvo rare eccezioni, come ad esempio la “Crocifissione e Giudizio universale” e la “Santa Barbara” di Van Eyck –  sempre in uno spazio interno, generalmente un edificio architettonico. In tale spazio la luce non è mai diffusa, ma necessariamente proveniente dalle varie aperture diventando, quindi, anche pluridirezionale. In tal modo, l’ambiente viene così illuminato da fonti di luce radente e mai uniforme, proveniente da punti ben precisi. In queste situazioni, il pittore fiammingo, nella creazione di effetti nei molteplici elementi esposti a più fonti di luce, deve inserire ombre con direzioni ed intensità diverse nel rispetto della parte illuminata, ma non solo: per giustificare quell’illuminazione, talvolta violenta,  deve creare zone di efficace riflesso, per cui gli elementi in quel punto, a prescindere dal loro tono originale, diventano spesso bianchi.

Tutto lascerebbe supporre che tali rappresentazioni possano essere realizzate soltanto in spazi piccoli e chiusi: questi, invece, son tutt’altro che circoscritti, anzi di solito si aprono con finestre che lasciano intravedere sconfinate paesaggistiche (“Madonna del Cancelliere Rolin”). Anche in ambienti chiusi, come ad esempio quello dei ritratti dei Coniugi Arnolfini” di Jan van Eyck, c’è il solito sconfinamento, ottenuto con gli specchi che ampliano l’ambiente, mostrando le spalle dei due effigiati. La luce nella pittura fiamminga inoltre non ha la selettività di quella impiegata dai pittori toscani, ma illumina alla stessa maniera sia i protagonisti in primo piano che tutti gli altri oggetti, anche quelli apparentemente insignificanti, nonostante l’impiego di più fonti luminose provenienti da più direzioni (ad esempio dalle finestre di interni).

Il ritratto e il simbolismo:

In una rappresentazione ritrattistica – ove anche il particolare, non appartenente al soggetto principale – viene descritto con così tanta attenzione, l’effigiato perde gran parte della sua centralità, assai teorizzata dagli umanisti dell’epoca, ed assume una valenza pari ad ogni altro elemento della composizione, dove pure il principio ordinatore della razionalità perde il suo ruolo. In tal modo, in queste composizioni, agli atteggiamenti ed alle azioni dell’uomo non viene conferita la giusta importanza e , quindi, ne viene sminuita la capacità e la forza di fare la “storia”. Viceversa i singoli dettagli acquisiscono una valenza superiore, talvolta allegorica, che può essere interpretata su vari strati.

Nel “Ritratto dei coniugi Arnolfini”, ad esempio, si possono riscontrare innumerevoli elementi il cui ruolo non è soltanto quello di armonizzare l’intero contesto, ma alludere ai vari significati legati alla cerimonia matrimoniale: il cagnolino in primo piano, posto fra i due personaggi, indica reciproca fedeltà; la candela invece ricorda quelle nuziali che appaiono nelle Annunciazioni; anche la verga appesa alla parete e la statuetta di Santa Margherita alludono alla vita matrimoniale.

La grandissima varietà di significati intellettuali, assieme all’eleganza di ogni singolo elemento della rappresentazione, fanno delle pitture fiamminghe tra le più pregiate ed amate.

Un’altra caratteristica importante che si riscontra nei ritratti fiamminghi è la ripresa a tre quarti dell’effigiato, che permette al pittore di cogliere molte più informazioni sul soggetto da immortalare.

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