Citazioni e critica su Van Gogh (1)

Citazioni e critica su Van Gogh (1) (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Pagine correlate all’artista: Vita artistica – La critica dal 1934 – Le opereLe opere 2Le opere 3 – Il periodo artistico – Le lettere di Van Gogh – Bibliografia.

 Quello che ha detto la critica ufficiale della Storia dell’arte di Vincent Van Gogh:

A. Aurier, in ‘Mercure de France’, gennaio 1890:   È, quasi sempre, un simbolista. D’accordo, non un simbolista al modo dei primitivi ita­liani — mistici che quasi non avvertivano la ne­cessità di smaterializzare i loro sogni —, ma un simbolista che prova di continuo l’urgenza di rivestire le proprie idee di forme precise, pon­derabili, tangibili, di involucri intensamente car­nali e materiali. In quasi tutte le sue tele, sotto questo involucro morfico, sotto la carne così carne, sotto la materia così materia, si nasconde, per lo spirito che sa vederlo, un pensiero, un’idea, e quest’idea, sostrato essenziale dell’opera, ne è al tempo stesso la causa iniziale e finale.

In quanto alle sfavillanti, sfolgoranti sinfonie di colori e di linee, quale che sia la loro impor­tanza per il pittore, esse non sono nel suo lavoro che semplici mezzi espressivi, semplici processi di simbolizzazione. Se si rifiutasse, infatti, di ammettere sotto quest’arte naturalistica l’esistenza di tendenze idealistiche, gran parte dell’opera che noi studiarne resterebbe quasi del tutto in­comprensibile. … Questo artista vero, gagliardo, di pura razza, dalle mani brutali di gigante, dai nervosismi di donna isterica, dall’anima di illuminato, così originale, così a sé stante in mezzo alla nostra miserevole arte odierna, conoscerà un giorno — tutto è possibile — la felicità della riabilita­zione, le lusinghe pentite della moda? Forse. Ma qualsiasi cosa accada, quando anche la moda pagasse le sue tele ciò che è poco probabile al prezzo delle infamie meschine di Meissonier, non credo che in questa ammirazione tardiva del grosso pubblico entrerebbe mai molta sincerità. Vincent Van Gogh è al tempo stesso troppo semplice e troppo sottile, per lo spirito borghese contemporaneo. Sarà sempre completamente com­preso dai suoi fratelli, gli artisti solo artisti… e dai felici del popolo minuto, del popolo più umile

O. mirbeau, in ‘Écho de Paris’, 31 marzo 1891:  Non si era immedesimato nella natura, aveva immedesimato la natura in sé; l’aveva costretta a piegarsi, a modellarsi secondo le forme del suo pensiero, a seguirlo nelle sue impennate, perfino a subire le sue deformazioni … Van Gogh ha avuto, a un livello raro, ciò che diversifica un uomo da un altro: lo stile. In una folla di qua­dri mescolati gli uni agli altri, basta una sola occhiata per riconoscere senz’ombra di dubbio quelli di Vincent Van Gogh, come si riconoscono quelli di Corot, di Manet, di Degas, di Monet, di Monticelli, poiché questi artisti hanno un genio particolare, dal quale non possono allonta­narsi, e che è lo stile, vale a dire l’affermazione della personalità. E ogni cosa, sotto il pennello di questo creatore bizzarro e poderoso, si anima di una vita misteriosa, indipendente dalla cosa stessa che egli dipinge, che è in lui e che è lui. Egli si svuota completamente, a vantaggio degli alberi, dei cicli, dei fiori, dei campi, che gonfia della stupefacente linfa del suo essere; e queste forme si moltiplicano, si scapigliano, si torcono, e persino nella mirabile follia di quei cieli dove gli astri ubriachi volteggiano e barcollano, dove le stelle si allungano in code di comete sbrin­dellate, persino nello sbocciare di quei fiori fan­tastici che si ergono e s’innalzano simili a uccelli dementi, Van Gogh conserva sempre le proprie stupende doti di pittore, una nobiltà che com­muove, una grandezza tragica che atterrisce.

È. bernard, in ‘Mercure de France’, luglio 1893:  Con amore tutto particolare si rivoltola nella materia stessa della pittura, nella pasta; che manipolare questa pasta era per lui una gioia. Allo stesso modo che l’avaro ama manipolare il pro­prio oro e gioca con esso in segreto, egli fuggiva nella solitudine delle campagne per palpare libe­ramente i suoi tubetti, per premerli, per vuo­tarli con furore su tele vergini, di fronte alle collinette di Saint-Rémy, nella Crau, sotto i ripari ombrosi della casa di salute dove più tardi lo condusse il suo delirio. Pittore è e pittore rimane, sia che, ancora giovane, traduca l’Olanda in bruno, sia che, in età più avanzata, come divisionista, interpreti Montmartre e i suoi giardini, e infine, con impasti furibondi, il Mezzo­giorno o Auvers-sur-Oise. Che disegni o no, che si perda nella macchia o nelle deformazioni, resta pittore per sempre.

H. von hotmannsthal, lettera del 26 inaggio 1901 (in Aus den Briefen des Zurùcfigekehrten. Die Furbe, Berlino 1917):   A tutta prima, questa pittura mi è sembrata troppo violenta, agitata, cruda, strana; mi è occorso un certo tempo per orientarmici, per co­gliere l’unità delle prime tele che ho guardato, per distinguervi il quadro. Ma in seguito ho ve­duto : le ho vedute ognuna separatamente e tutte insieme, e la natura in esse, e la potenza dello spirito umano che ha saputo modellare la natura, che ha dipinto l’albero e il cespuglio, il campo e il declivio della collina. E ho veduto ancora: ciò che queste pitture ricoprono, il loro senso vero, la parte di destino che rivelano. Tutto questo mi è diventato talmente visibile, che mi sono perduto io stesso in quei quadri, per ritro­varmi e perdermi ancora. … Un campo a maggese, un viale di grandi al­beri che si stagliano contro il cielo della sera, un sentiero incassato con pini contorti, un pezzo di giardino con il retro di una casa, carretti di contadini trainati da cavalli magri su un pascolo, un bacile di rame e una. brocca di terraglia, alcuni contadini seduti intorno a un tavolo, intenti a mangiare patate: a che serve descrivere tutto questo? Devo parlare dei colori? Vi si vedono un turchino intenso, inverosimile, che ritorna di continuo, un verde di smeraldo fuso, un giallo che da sull’arancione. Ma che cosa sono i colori, se non rivelano la vita intima degli oggetti? Questa vita era lì : l’albero, la pietra, il muro, il sentiero incassato davano ciò che avevano di più segreto, lo gettavano per così dire verso di me. Ma non mi comunicavano la voluttà e l’ar­monia della loro perfetta vita silente. Non vi era lì nulla dell’incanto che avevo provato altre volte davanti a qualche quadro antico: no, ero assalito soltanto dal miracolo incredibile della loro possente e violenta esistenza… Andando da quadro all’altro sentivo ciò che li univa tutti, la vita intima che si schiudeva nel colore e nei rapporti dei colori fra loro; li vedevo vivere l’uno grazie all’altro, e sempre ce n’era uno misteriosamente possente che li dominava tutti. Sentivo ovunque l’anima di colui che aveva fatto tutto questo, che grazie a questa visione aveva risposto a se stesso mediante se stesso, per liberarsi dello spasimo mortale di un dubbio spaventoso; sentivo, sapevo, penetravo ogni cosa, gioivo degli abissi e delle vette, dell’esteriore e dell’interiore, e tutto ciò nella decimillesima parte del tempo che impiego per descriverlo

J. B. de la faille, L’époque francaise de Van Gogh, Parigi 1927:  C’è tuttora un partito conservatore che lo giudica un visionario, un essere stravagante, biz­zarro, squilibrato, e respinge la sua pittura… perché si tratta dell’opera di un ‘pazzo’!  Il lato visionario di quest’opera, che talvolta si palesa, deriva dal suo bisogno appassionato di luce, dal desiderio delirante di trasfondere nei propri colori e nella propria composizione l’in­tensità e l’esuberanza solari. Il grande disco è aureolato di irradiazioni che si attorcigliano come serpi intorno alla fonte astrale della luce e fanno fiammeggiare tutto quanto il cielo. Per Vincent il sole non brilla mai abbastanza, vor­rebbe che ve ne fossero due. Il sole è talmente il suo idolo, da fargli ricercare, estasiato, il riverbero dell’oro solare sulla terra incendiata dai raggi. I gialli sono i suoi colori prediletti : ritrova il giallo paglierino nei campi di grano e il giallo limone nei limoni, riveste di giallo ocra i muri degli edifici, prende per i suoi sfondi il giallo canarino, colora le vesti di giallo zolfo.  È una visione sovreccitata che si ritrova anche in talune volute deformazioni dei suoi ritratti. Ma il partito tradizionalista ignora del tutto che Vincent ha reso molte volte la natura con una verità sorprendente : nulla di truccato, nulla di aggiunto, nulla di mutato. A Montmajour ha disegnato le rocce. Ebbene, quando ci si mette nel punto esatto in cui si era messo Vincent, si è stupiti di vedere nei massi rocciosi gli stessi crepacci, le stesse formazioni, la stessa linea spezzettata, gli stessi anfratti che Vincent ha osservato disegnando. Non ha omesso, non ha trascu­rato nulla. E come resta sublime, nonostante i particolari! Nulla di meschino, nulla di troppo rifinito o compiaciuto, nulla di artificioso o falso. La sua opera è l’incarnazione del reale; egli è il grande maestro di un naturalismo esaspe­rato. Coloro che non capiscono la sua visione san­no che Vincent ha avuto crisi mentali ed epilettiche e nascondono la loro incapacità a capirlo qualificandolo di pazzo. Ma se s’ignorasse tutto della sua vita, se non si conoscessero al­cuni particolari della sua personalità, nessun intellettuale oserebbe definire la sua l’opera di un pazzo. I geni precorrono sempre il loro tempo ed è rarissimo che i contemporanei li capiscano.

L. vitali, Precursori: Vincent Van Gogh, in ‘Domus*, novembre 1934:  Se Parigi lo fa pittore, e grande pittore, Van Gogh non rinunzia neppure negli ultimissimi anni a certe sue predilezioni curiosissime. Vi sono pittori coscienti, che vivono in un mondo dove tutto risponde con perfetta coerenza alla loro concezione dell’arte, che sanno eleggersi i propri progenitori e li venerano con una fedeltà che non ammette confusioni; non si può dimenticare la complessità di mente di un Delacroix, la precisa lucidità ed il caustico rigore di un Degas, che non si lascia mai prendere la mano da nessuno. Van Gogh è l’opposto : questo ex mistico ha serbato slanci fanatici, generose aspirazioni messianiche, ideologie spesso mal digerite, e, nel campo della pittura, in contrasto con il suo istinto prepotente, ammirazioni assurde, che stanno a dimostrare la totale assenza d’un discerni­mento critico. Meissonier gli parrà sempre un maestro qu’on ne peut dépasser, degnissimo di stare accanto ai prediletti Millet, Delacroix, Daumier; adora Monticelli, vorrebbe pouvoir faire des bleus camme Ziem e, naturalmente, con grande scandalo e disprezzo di Gauguin, detesta l’olimpico Ingres. Il contrasto fra le opere e la mediocrità di certe idee di Van Gogh non potrebb’essere più palese, più deciso; esso trae ori­gine dalla disordinatissima educazione estetica, compiuta a pezzi e a bocconi, come capita sempre agli autodidatti, ma soprattutto rimette gli squilibri e le candide ingenuità della sua mente di magnifico barbaro.  Comunque sia, più delle contraddizioni e delle confusionarie preferenze d’un pittore, contano le opere, anche se queste non si possono disgiungere da quelle. Ed il biennio parigino, durante il quale Van Gogh conosce Pissarro e Guillaumin, Seurat e Toulouse-Lautrec — uomini rappresentativi di due generazioni — e si fa amico di Gauguin e di Émile Bernard — questo ex-rivoluzionario, oggi ridotto al più accademico ed inutile italianismo —, è ricco di opere diseguali come propositi, se non come valore. … In pochi altri artisti la vita fu tanto legata all’arte, ma oltre le vicende tragiche dell’esi­stenza, contano le opere. Van Gogh ha preparato trent’anni di pittura; quel che presentiva, s’è avverato. Partito dall’Impressionismo, intesa la lezione dell’Oriente per l’impiego dell’arabesco disegnativo e delle preziosità coloristiche, egli si riallaccia al movimento romantico, ma lo supera per l’esasperata intensità della visione. Egli non rompe i ponti con il Naturalismo, ma va oltre; le sue magnifiche allucinazioni, che non preludono in nessun modo e in nessun momento all’arte astratta, aprono la via all’Espressionismo. Egli ne è il fondatore primo o, come di­cono ora i nuovi savi, il maggior colpevole.

Critica 2 su Van Gogh

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