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Citazioni e critica su Van Gogh attraverso gli anni

Citazioni e critica su Van Gogh

(citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

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Cosa hanno detto i critici della Storia dell’arte su Vincent va Gogh:

G. castelfranco, l.a pittura moderna 1860-1930, Firenze 1934: Nulla v’è di più balordo e di mentalmente più detestabile che voler dedurre dalla fine tragica di questi uomini, i cui nervi troppo deboli o oscuramente insidiati non hanno retto allo sforzo della vita, i caratteri della loro opera; ma è indubbio che in tutta l’opera della maturità di Van Gogh è una impostazione psicologica che turba. Non è solo una visione nuova come in Cézanne, ma una posizione sentimentale eccezionale : egli sente la natura come eccitata fibra a fibra, nella sua vita fisica, senza pace ne meta. Lo spetta­colo più sereno, più vitale, più calmo, un cam­po, una strada con dei castagni, dei fiori in un vaso, gli si scompone davanti in uno scoppiettare di forme minute, a colori ultrapotenti, che si accalcano, vibrano, urlano disperatamente.

Siamo al penultimo atto della fine del mondo, quando il mondo sta per disfarsi in un caos rutilante. Visione sentitissima, in un uomo di doti stragrandi; che ha portato a tutto un repertorio pittorico nuovo; a questa sua pennellata che non profila, ne da una singola luce, ma intero un particolare, un elemento-forza, balzante, del soggetto; questo suo colore abbacinante, tutto sole, che conosce ombre quasi solo nelle rughe delle pennellate. E tutto ciò avrà una influenza grande sui pittori della generazione seguente.

G. L. luzzatto, Vincent Van Gogh, Modena 1936: Questo è il prodigio di Van Gogh : la veemenza con cui, nella sua fantasia, ogni elemento caratteristico diventa intensamente espressivo. Pa­re talvolta Van Gogh dipinga con le unghie e con il fiato, ma riesce a infondere il respiro sulla terra, fra una massa di paglia gialla e un fremito di ali per il cielo.

L. hautegoetjr, Van Gogh, Monaco-Ginevra 1946:  Van Gogh non ha cessato di voler essere e di essere se stesso. Naturalismo e Romanticismo erano nel fondo del suo temperamento, ed egli, essere ipersensibile, ne esagerò gli aspetti : accentuò il carattere, insistette sulle forme, esaltò i colori, semplificando, riassumendo. Ecco perché Albert Aurier potè affermare che Vincent era sintetista : poiché, insieme con il carattere, è l’apparenza ciò che ci colpisce, l’emozione che un oggetto provoca in noi, Vincent si è sforzato di rendere in tutta la sua forza la sensazione ch’egli prova; e poiché la sensazione dipende dal nostro stato fisico, dagli umori del momento, la pittura non rappresenta più esclusivamente il carattere del modello, ma esprime altresì il carattere dell’autore : forme e colori non rispondono soltanto a dati oggettivi, ma a stati d’animo soggettivi, diventano simboli; ed ecco, dunque, perché Vincent può mere classificato fra i simbolisti.

M. valsecchi, Van Gogh, Firenze 1952:  [A Parigi] Van Gogh arriva in tempo per assestare gli ultimi colpi all’edonismo impressionista. In questa funzione di liquidatore, ha la stessa importanza e determinatezza di Cézanne. Due strade opposte : quella di Cézanne, che risponde a un’idea statica e spaziale della natura, condurrà la pittura a esprimersi per volumi, a costo magari di un eccesso di geometria, e sarà un’operazione che interesserà da vicino, vent’anni dopo, i cubisti; quella di Van Gogh condurrà invece la pittura a esaltarsi nel suo stesso colore, nel ten­tativo di esprimere arbitrariamente ma con più intensità uno stato d’animo, un riflesso emotivo della natura, e sarà un’operazione che interesserà i ‘Fauves‘ e gli Espressionisti. … Forse nessun altro occhio di pittore s’è con­sumato come il suo a interrogare ogni forma, ogni colore, ogni vibrazione di luce. Se si fa caso alle opere che nascono nel biennio provenzale con un fiotto precipitoso (“dipingo come preso dalla rabbia”, scrive a Theo), ci si avvede che Van Gogh non ha mai abbandonato la sua tendenza mistica; ne ha cambiato soltanto la dire­ziono, il punto finale di contemplazione. Non può dimenticarsi; non si è mai lasciato assorbire dalla natura; semmai l’ha assorbita in sé, componendola secondo le cadenze del suo sogno e le illuminazioni della sua fantasia, allo stesso modo che, durante gli anni olandesi, se ne servì per esprimere una sua idea del dolore del mondo.

F. arcangeli, L’alfabeto di Van Gogh, in ‘Paragone’, maggio 1952: A me personalmente non resta che rimpian­gere che una vocazione di pittore non abbastanza nativa, che le insidie di una mente troppo meto­dica, almeno a tratti, non ci abbiano dato che intensi inviti a capolavori che non vennero : tali mi paiono anche le opere più belle del tempo di Arles. La qualità dei risultati non toglie nulla alla grandezza e all’importanza storica dell’impresa : ci sarà sempre da amare questo moderno Icaro. Le sue ali parvero sopraffatte dal sole troppo cocente: era troppo violento il soffio, temuto, del Arial; troppo assordante lo stridore delle cicale della Crau, che gli ronzava nella niente insieme a certe aspirazioni, a certi ricordi compresenti e un po’ confusi : i Greci, i ‘primitivi’, gli antichi olandesi, la musica di Wagner; e perfino letture su Dante e Boccaccio, e la no­stalgia petrarchesca dei lauri e delle rose di Valchiusa. Troppe, troppo grandi cose. Tuttavia, non si ammirerà mai abbastanza la coscienza deliberata, umile ed esaltata ad un tempo, con cui Van Gogh affrontò la sua impresa. Dice una lettera commoventissima del 10 di maggio : “Non mi ricordo più chi ha definito questo stato : ‘essere colpiti a morte dall’immortalità’. Si capisce che la carrozza da noi tirata arreca utilità a persone che nemmeno conosciamo … Pur nella certezza di non essere affatto prossimi a morire, tuttavia abbiamo la precisa sensazione che la cosa è più grande di noi e che siamo una piccola cosa e che, per diventare un anello della catena degli artisti, dobbiamo pagare un alto prezzo di salute, di giovinezza, di libertà …”. Nessuno po­trà negare a Van Gogh il diritto di essere con­siderato un anello, e che importante anello della catena degli artisti : il più accanito, urgente sti­molatore, intanto, di quei ‘coloristi come non ve n’erano mai stati’, e che saranno alcuni fra i più grandi maestri del nostro secolo, da Matisse a Soutine. D’altra parte, se il pronunciarsi dell’inedito colorismo di Van Gogh nell’estate di Arles ha qualche cosa di esplosivo, sappiamo an­che da quante cose fosse già preparato: il pre­cedente ideale di Delacroix, quello più vicino e confuso di Monticeli;, i colori puri dei giapponesi, le meditazioni sui colori a Nuenen. Era, se mai, una bomba già carica da un pezzo, che esplode a scoppio ritardato. Non si dimentichino, e non se ne dimenticava Van Gogh, gli im­pressionisti …  Il dono da lui intelligentemente ammirato in Frans Hals, di impostare un quadro ‘di prima’ col massimo d’impeto e di giustezza (dono rinverdito, se mai, da Manet), non fu di Van Gogh ; i suoi massimi successi in questo senso furon toc­cati a forza di lavoro, non certo per vocazione nativa. Qualche cosa quasi sempre sterza, fatica, si fa trito sulla sua pagina; e gli anticipi di un espressionismo or male oscillano troppo spesso, incerto alfabeto, fra l’ardimento e l’errore di grammatica. (Ne citerò un esempio tipico: nel quadro che s’intitola Sulla soglia dell’eter­nità non mi si dica che il rapporto tra piede e calzone, nella gamba destra del vecchio, è un esempio di deformazione espressiva : questo è errore di grammatica ; quel calzone infila una gamba mancante, che stava partendo dal piede in tutt’altra direzione). La maggior gloria dell’estate di Arles resta la violenza dell’invenzione cromatica; eppure, nemmeno per questa parte il nostro appagamento è pieno : quei colori sono stesi troppo densamente, troppo ciecamente, perché splendano di vero splendore. Avrebbe dovuto, Van Gogh, sfoltire la materia; ma quel sapiente rapporto per cui un colore brilla vera­mente sul bianco della tela, che lo illumina dall’interno con la sua candida violenza, fu inven­zione dei ‘fauves’, di Matisse anzitutto. Van Gogh non toccò mai quella vivente stratosfera dei sensi; fu colorista inedito, è certo, ma non quel ‘colorista non mai veduto’ di cui sognava; di cui del resto, con eroica umiltà, si rassegnava ad essere l’affaticato e temerario annunciatore. La massima intensità, il massimo splendore lo rag­giunge ancora dove non taglia interamente i ponti coll’impressionismo. … Ma quando, come nei famosi Girasoli, il colore sembra stendersi uniforme come una docile crema, più o meno densa di pasta, sottratta a ogni luce fisica ; quando egli sembra toccare il culmine del suo misticismo naturistà, non mi pare affatto ch’egli giun­ga a quello splendente traguardo che fa dire a Rimbaud: “Enfin, o bonheur, o raison, j’écartai du ciel l’azur, qui est du noir, et je vécus, étincelle d’or de la lumière nature”. Al confronto, quest’oro di Van Gogh si fa bella illusione, opaco splendore; più vicino alla decorazione che al rapimento. Non per niente quei girasoli piacevano tanto a Gauguin; e il Giappone si rivelava un mito da equivalere a quello rischiosissimo di Tahiti. Un equilibrio vi è raggiunto, tra forma e colore, come raramente accade in Van Gogh ; ma non mi pare che la constatazione basti a pro­clamare il capolavoro, quando la sintesi accade secondo una grammatica troppo facilmente ripetibile, in una sorta di alto artigianato. I gialli di Van Gogh : quante volte ci siamo sentiti as­sordare da questa bella, ma troppo facile favola della pittura contemporanea al suo nascere ; belli quei gialli, ma come il colore ancor vergine dentro il tubetto; e Van Gogh aveva troppa fede, da troppo tempo, in quell’alfabeto cromatico che aveva in mente fino da Nuenen; troppa fede nella purezza materiale dei colori, e perciò pochi stimoli a ritrovare un interno rapporto che la riscatti

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