Il casolare – La Chaumière di Vincent van Gogh

La Chaumière Vincent van Gogh

Il casolare - La Chaumière di Vincent van Gogh
Il casolare – La Chaumière, maggio 1885, 64 x 78 cm. Amsterdam, Rijksmuseum Vincent van Gogh.

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Descrizione dell’opera

Sull’opera: “II casolare – La Chaumière” è un dipinto di Vincent van Gogh, realizzato con tecnica a olio su tela nel maggio 1885, misura 64 X 78 cm. ed è custodito ad Amsterdam nel Rijksmuseum Vincent van Gogh.

Il contenuto

I sistematici tristi pensieri dell’artista, derivati dalle delusioni giornaliere e, soprattutto, dalla solitudine, vengono qui rappresentati attraverso la raffigurazione di un casolare.

Il dramma vissuto nell’intera vita si ripresenta in questa tela in un particolare momento della giornata: quello del del tramonto! Questo è reso ancora più triste dalle fredde gamme cromatiche del soggetto raffigurato.

Anche l’ambiente che circonda il casolare è tetro: si osservino i rami rinsecchiti degli alberi sulla destra del casolare ed il cielo, descritto con un angosciante cromatismo, che sembra dover scatenare un imminente temporale.

“Contadina, ritratto di Giordina de Groot” di Van Gogh

Vincent van Gogh: Ritratto di Giordina de Groot

Contadina, ritratto di giordana de Groot" di Van Gogh
Contadina, ritratto di giordina de Groot” di Van Gogh

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Descrizione dell’opera

L’attuale sede

Sull’opera: “Contadina, ritratto di Gordina de Groot”, è un dipinto di Vincent Van Gogh realizzato con tecnica ad olio su tela nel marzo 1885, misura 43 x 33,5 cm. ed è custodito ad  Amsterdam nel Rijksmuseum.

Descrizione del ritratto

Intorno al periodo che comprende il dicembre 1884 e tutto l’aprile 1885, dietro le richieste del fratello Theo, l’artista realizzò una quarantina di figure di contadini, soprattutto ritratti, che accettarono di posare lui.

Nel dipinto in esame Van Gogh non si preoccupa affatto di affinare o addolcire le curve del volto della giovane contadina. Infatti la riprende con tutta la sua pura espressività, volendone così evidenziare, con decisi colpi di pennello, le irregolarità degli zigomi, delle labbra e del naso.

Paragonando la presente composizione all’iconografia classica delle tradizionali figure del momento, possiamo affermare di trovarci di fronte ad un nuovo stile innovativo – se non, sotto molti aspetti – rivoluzionario. Vengono, infatti, rifiutate le delicatissime forme, curate fin nei più piccoli particolari, che sfiorano talvolta la leziosità,

Citazioni e critica su Van Gogh (1)

Citazioni e critica su Van Gogh (1) (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Pagine correlate all’artista: Vita artistica – La critica dal 1934 – Le opereLe opere 2Le opere 3 – Il periodo artistico – Le lettere di Van Gogh – Bibliografia.

 Quello che ha detto la critica ufficiale della Storia dell’arte di Vincent Van Gogh:

A. Aurier, in ‘Mercure de France’, gennaio 1890:   È, quasi sempre, un simbolista. D’accordo, non un simbolista al modo dei primitivi ita­liani — mistici che quasi non avvertivano la ne­cessità di smaterializzare i loro sogni —, ma un simbolista che prova di continuo l’urgenza di rivestire le proprie idee di forme precise, pon­derabili, tangibili, di involucri intensamente car­nali e materiali. In quasi tutte le sue tele, sotto questo involucro morfico, sotto la carne così carne, sotto la materia così materia, si nasconde, per lo spirito che sa vederlo, un pensiero, un’idea, e quest’idea, sostrato essenziale dell’opera, ne è al tempo stesso la causa iniziale e finale.

In quanto alle sfavillanti, sfolgoranti sinfonie di colori e di linee, quale che sia la loro impor­tanza per il pittore, esse non sono nel suo lavoro che semplici mezzi espressivi, semplici processi di simbolizzazione. Se si rifiutasse, infatti, di ammettere sotto quest’arte naturalistica l’esistenza di tendenze idealistiche, gran parte dell’opera che noi studiarne resterebbe quasi del tutto in­comprensibile. … Questo artista vero, gagliardo, di pura razza, dalle mani brutali di gigante, dai nervosismi di donna isterica, dall’anima di illuminato, così originale, così a sé stante in mezzo alla nostra miserevole arte odierna, conoscerà un giorno — tutto è possibile — la felicità della riabilita­zione, le lusinghe pentite della moda? Forse. Ma qualsiasi cosa accada, quando anche la moda pagasse le sue tele ciò che è poco probabile al prezzo delle infamie meschine di Meissonier, non credo che in questa ammirazione tardiva del grosso pubblico entrerebbe mai molta sincerità. Vincent Van Gogh è al tempo stesso troppo semplice e troppo sottile, per lo spirito borghese contemporaneo. Sarà sempre completamente com­preso dai suoi fratelli, gli artisti solo artisti… e dai felici del popolo minuto, del popolo più umile

O. mirbeau, in ‘Écho de Paris’, 31 marzo 1891:  Non si era immedesimato nella natura, aveva immedesimato la natura in sé; l’aveva costretta a piegarsi, a modellarsi secondo le forme del suo pensiero, a seguirlo nelle sue impennate, perfino a subire le sue deformazioni … Van Gogh ha avuto, a un livello raro, ciò che diversifica un uomo da un altro: lo stile. In una folla di qua­dri mescolati gli uni agli altri, basta una sola occhiata per riconoscere senz’ombra di dubbio quelli di Vincent Van Gogh, come si riconoscono quelli di Corot, di Manet, di Degas, di Monet, di Monticelli, poiché questi artisti hanno un genio particolare, dal quale non possono allonta­narsi, e che è lo stile, vale a dire l’affermazione della personalità. E ogni cosa, sotto il pennello di questo creatore bizzarro e poderoso, si anima di una vita misteriosa, indipendente dalla cosa stessa che egli dipinge, che è in lui e che è lui. Egli si svuota completamente, a vantaggio degli alberi, dei cicli, dei fiori, dei campi, che gonfia della stupefacente linfa del suo essere; e queste forme si moltiplicano, si scapigliano, si torcono, e persino nella mirabile follia di quei cieli dove gli astri ubriachi volteggiano e barcollano, dove le stelle si allungano in code di comete sbrin­dellate, persino nello sbocciare di quei fiori fan­tastici che si ergono e s’innalzano simili a uccelli dementi, Van Gogh conserva sempre le proprie stupende doti di pittore, una nobiltà che com­muove, una grandezza tragica che atterrisce.

È. bernard, in ‘Mercure de France’, luglio 1893:  Con amore tutto particolare si rivoltola nella materia stessa della pittura, nella pasta; che manipolare questa pasta era per lui una gioia. Allo stesso modo che l’avaro ama manipolare il pro­prio oro e gioca con esso in segreto, egli fuggiva nella solitudine delle campagne per palpare libe­ramente i suoi tubetti, per premerli, per vuo­tarli con furore su tele vergini, di fronte alle collinette di Saint-Rémy, nella Crau, sotto i ripari ombrosi della casa di salute dove più tardi lo condusse il suo delirio. Pittore è e pittore rimane, sia che, ancora giovane, traduca l’Olanda in bruno, sia che, in età più avanzata, come divisionista, interpreti Montmartre e i suoi giardini, e infine, con impasti furibondi, il Mezzo­giorno o Auvers-sur-Oise. Che disegni o no, che si perda nella macchia o nelle deformazioni, resta pittore per sempre.

H. von hotmannsthal, lettera del 26 inaggio 1901 (in Aus den Briefen des Zurùcfigekehrten. Die Furbe, Berlino 1917):   A tutta prima, questa pittura mi è sembrata troppo violenta, agitata, cruda, strana; mi è occorso un certo tempo per orientarmici, per co­gliere l’unità delle prime tele che ho guardato, per distinguervi il quadro. Ma in seguito ho ve­duto : le ho vedute ognuna separatamente e tutte insieme, e la natura in esse, e la potenza dello spirito umano che ha saputo modellare la natura, che ha dipinto l’albero e il cespuglio, il campo e il declivio della collina. E ho veduto ancora: ciò che queste pitture ricoprono, il loro senso vero, la parte di destino che rivelano. Tutto questo mi è diventato talmente visibile, che mi sono perduto io stesso in quei quadri, per ritro­varmi e perdermi ancora. … Un campo a maggese, un viale di grandi al­beri che si stagliano contro il cielo della sera, un sentiero incassato con pini contorti, un pezzo di giardino con il retro di una casa, carretti di contadini trainati da cavalli magri su un pascolo, un bacile di rame e una. brocca di terraglia, alcuni contadini seduti intorno a un tavolo, intenti a mangiare patate: a che serve descrivere tutto questo? Devo parlare dei colori? Vi si vedono un turchino intenso, inverosimile, che ritorna di continuo, un verde di smeraldo fuso, un giallo che da sull’arancione. Ma che cosa sono i colori, se non rivelano la vita intima degli oggetti? Questa vita era lì : l’albero, la pietra, il muro, il sentiero incassato davano ciò che avevano di più segreto, lo gettavano per così dire verso di me. Ma non mi comunicavano la voluttà e l’ar­monia della loro perfetta vita silente. Non vi era lì nulla dell’incanto che avevo provato altre volte davanti a qualche quadro antico: no, ero assalito soltanto dal miracolo incredibile della loro possente e violenta esistenza… Andando da quadro all’altro sentivo ciò che li univa tutti, la vita intima che si schiudeva nel colore e nei rapporti dei colori fra loro; li vedevo vivere l’uno grazie all’altro, e sempre ce n’era uno misteriosamente possente che li dominava tutti. Sentivo ovunque l’anima di colui che aveva fatto tutto questo, che grazie a questa visione aveva risposto a se stesso mediante se stesso, per liberarsi dello spasimo mortale di un dubbio spaventoso; sentivo, sapevo, penetravo ogni cosa, gioivo degli abissi e delle vette, dell’esteriore e dell’interiore, e tutto ciò nella decimillesima parte del tempo che impiego per descriverlo

J. B. de la faille, L’époque francaise de Van Gogh, Parigi 1927:  C’è tuttora un partito conservatore che lo giudica un visionario, un essere stravagante, biz­zarro, squilibrato, e respinge la sua pittura… perché si tratta dell’opera di un ‘pazzo’!  Il lato visionario di quest’opera, che talvolta si palesa, deriva dal suo bisogno appassionato di luce, dal desiderio delirante di trasfondere nei propri colori e nella propria composizione l’in­tensità e l’esuberanza solari. Il grande disco è aureolato di irradiazioni che si attorcigliano come serpi intorno alla fonte astrale della luce e fanno fiammeggiare tutto quanto il cielo. Per Vincent il sole non brilla mai abbastanza, vor­rebbe che ve ne fossero due. Il sole è talmente il suo idolo, da fargli ricercare, estasiato, il riverbero dell’oro solare sulla terra incendiata dai raggi. I gialli sono i suoi colori prediletti : ritrova il giallo paglierino nei campi di grano e il giallo limone nei limoni, riveste di giallo ocra i muri degli edifici, prende per i suoi sfondi il giallo canarino, colora le vesti di giallo zolfo.  È una visione sovreccitata che si ritrova anche in talune volute deformazioni dei suoi ritratti. Ma il partito tradizionalista ignora del tutto che Vincent ha reso molte volte la natura con una verità sorprendente : nulla di truccato, nulla di aggiunto, nulla di mutato. A Montmajour ha disegnato le rocce. Ebbene, quando ci si mette nel punto esatto in cui si era messo Vincent, si è stupiti di vedere nei massi rocciosi gli stessi crepacci, le stesse formazioni, la stessa linea spezzettata, gli stessi anfratti che Vincent ha osservato disegnando. Non ha omesso, non ha trascu­rato nulla. E come resta sublime, nonostante i particolari! Nulla di meschino, nulla di troppo rifinito o compiaciuto, nulla di artificioso o falso. La sua opera è l’incarnazione del reale; egli è il grande maestro di un naturalismo esaspe­rato. Coloro che non capiscono la sua visione san­no che Vincent ha avuto crisi mentali ed epilettiche e nascondono la loro incapacità a capirlo qualificandolo di pazzo. Ma se s’ignorasse tutto della sua vita, se non si conoscessero al­cuni particolari della sua personalità, nessun intellettuale oserebbe definire la sua l’opera di un pazzo. I geni precorrono sempre il loro tempo ed è rarissimo che i contemporanei li capiscano.

L. vitali, Precursori: Vincent Van Gogh, in ‘Domus*, novembre 1934:  Se Parigi lo fa pittore, e grande pittore, Van Gogh non rinunzia neppure negli ultimissimi anni a certe sue predilezioni curiosissime. Vi sono pittori coscienti, che vivono in un mondo dove tutto risponde con perfetta coerenza alla loro concezione dell’arte, che sanno eleggersi i propri progenitori e li venerano con una fedeltà che non ammette confusioni; non si può dimenticare la complessità di mente di un Delacroix, la precisa lucidità ed il caustico rigore di un Degas, che non si lascia mai prendere la mano da nessuno. Van Gogh è l’opposto : questo ex mistico ha serbato slanci fanatici, generose aspirazioni messianiche, ideologie spesso mal digerite, e, nel campo della pittura, in contrasto con il suo istinto prepotente, ammirazioni assurde, che stanno a dimostrare la totale assenza d’un discerni­mento critico. Meissonier gli parrà sempre un maestro qu’on ne peut dépasser, degnissimo di stare accanto ai prediletti Millet, Delacroix, Daumier; adora Monticelli, vorrebbe pouvoir faire des bleus camme Ziem e, naturalmente, con grande scandalo e disprezzo di Gauguin, detesta l’olimpico Ingres. Il contrasto fra le opere e la mediocrità di certe idee di Van Gogh non potrebb’essere più palese, più deciso; esso trae ori­gine dalla disordinatissima educazione estetica, compiuta a pezzi e a bocconi, come capita sempre agli autodidatti, ma soprattutto rimette gli squilibri e le candide ingenuità della sua mente di magnifico barbaro.  Comunque sia, più delle contraddizioni e delle confusionarie preferenze d’un pittore, contano le opere, anche se queste non si possono disgiungere da quelle. Ed il biennio parigino, durante il quale Van Gogh conosce Pissarro e Guillaumin, Seurat e Toulouse-Lautrec — uomini rappresentativi di due generazioni — e si fa amico di Gauguin e di Émile Bernard — questo ex-rivoluzionario, oggi ridotto al più accademico ed inutile italianismo —, è ricco di opere diseguali come propositi, se non come valore. … In pochi altri artisti la vita fu tanto legata all’arte, ma oltre le vicende tragiche dell’esi­stenza, contano le opere. Van Gogh ha preparato trent’anni di pittura; quel che presentiva, s’è avverato. Partito dall’Impressionismo, intesa la lezione dell’Oriente per l’impiego dell’arabesco disegnativo e delle preziosità coloristiche, egli si riallaccia al movimento romantico, ma lo supera per l’esasperata intensità della visione. Egli non rompe i ponti con il Naturalismo, ma va oltre; le sue magnifiche allucinazioni, che non preludono in nessun modo e in nessun momento all’arte astratta, aprono la via all’Espressionismo. Egli ne è il fondatore primo o, come di­cono ora i nuovi savi, il maggior colpevole.

Critica 2 su Van Gogh

Biografia di Vincent van Gogh

Biografia di Vincent van Gogh (Groot-Zundert 1853 / Auvers-sur Oise 1890)

  Articoli correlati all’artista: Le sue opere – Il periodo artistico – La critica – Le lettere – Bibliografia.

Biografia e vita artistica di Van Gogh  Vincent

Autoritratto Con cappello di Van Gogh
Autoritratto Con cappello

Vincent Van Gogh appartiene ad una famiglia olandese attiva nella religione protestante e negli affari, paragonabile, per certi versi, a Caravaggio ma con chiare caratteristiche psicopatiche: è il “grande folle” del mondo pittorico del suo secolo, ed un mito per gli appassionati dell’arte perentoria negli anni Cinquanta–Sessanta dello scorso secolo.

Grande artista carico di energia coloristica e del tratto, dello struggente movimento delle forme nella materia della pittura, esperto teologo e incisivo poeta delle sofferenze umane, è attivo prevalentemente sulla strada apertagli dagli impressionisti francesi, ma fuori dall’arte del suo periodo.

Durante tutto il secolo che succede alla sua tragica morte, per la ricchezza e la varietà delle sue eccellenti innovazioni artistiche, van Gogh rimane un grande maestro, il cui nome non potrà mai essere dimenticato.

Ritratto di Pere Tanguy
Ritratto di Pere Tanguy, inverno 1887-88, olio su tela, 65 x 51 cm., collezione privata.

Van Gogh verso il 1887 – nel periodo in cui frequenta la bottega di generi artistici del Pere Tanguy ed allestisce piccole mostre personali al Café du Tambourin alternandosi con Emile Bernard, Toulouse-Lautrec e Louis Anquetin – è molto interessato alle teorie della percezione dei colori integri che si mescolano direttamente nella retina dell’occhio e integra il suo caratteristico linguaggio espressivo con tocchi “spezzettati”.

Proveniente da una famiglia calvinista ed impegnato in prima persona in sermoni tra la gente del Borinage, arriva a Parigi nel 1886, un anno significativo per la pittura, carico di eventi (vedi post-Impressionismo) che dovevano cambiare in modo radicale la strada maestra dell’arte.

Già negli anni precedenti aveva cambiato quasi totalmente la maniera di dipingere, cioè dalla stesura di colori densi e bui con grossi e decisi colpi di spatola, si era avvicinato ad una pittura più vigorosa con gamme cromatiche brillanti e dai caratteristici accostamenti di colore complementare.

Anche i suoi soggetti cambiarono diventando di più abituale quotidianità. Sicuramente era rimasto alquanto suggestionato ed affascinato dalle novità formali dell’ambiente artistico che lo circondava, tanto come era stato deluso dall’ambiente umano (nauseato dai pittori come uomini) dato che, secondo lui, metteva in condizione l’artista di trascurare i contenuti per dare spazio alle soluzioni puramente tecniche, legate agli effetti della visione.

La costante ricerca della sostanza delle cose e del loro senso, porta Van Gogh ad una scelta ben ragionata del linguaggio espressivo coloristico che colpisce direttamente la psiche umana, e lo orienta all’utilizzo di un tocco spezzettato che segue un’andatura ondeggiante nei contorni di forme volutamente irregolari e distorte: «Ho cercato di esprimere con il rosso e con il verde le terribili passioni degli uomini».

Vincent van Gogh: La sedia dell'artista
La sedia dell’artista

Nel 1888 si reca ad Arles, nella Francia meridionale, dove riesce a vivere a contatto con la natura rilassante ed amica, in un periodo di vero splendore creativo, dal quale hanno origine grandissimi capolavori come le grandi vedute paesaggistiche, cariche di struggente poesia: “La sedia”, “la camera dell’artista”, la serie dei “Girasoli”. È questo il momento in cui Van Gogh sogna la realizzazione di un suo studio d’arte, che gli riconsegni una funzione attiva nella società.

Cerca di coinvolgere nella realizzazione dell’impresa anche Paul Gauguin che è andato a trovarlo ad Arles.

La camera di Van Gogh
La camera di Van Gogh (o dell’artista) ad Arles, 72 x 90 cm. Amsterdam Rijksmuseum Vincent Van Gogh.

Il sogno purtroppo non si materializza e la forte delusione lo porta ad un tragico gesto con l’automutilazione dell’orecchio, che dà origine ad una fase di profondo sgomento, culminando nel ricovero all’ospedale psichiatrico di  Saint-Rémy-de-Provence. Da qui la sua pittura cambia nuovamente e le rappresentazioni che seguono testimoniano una situazione umana gracile e sconsolata, che poco alla volta si fa sempre più angosciata ed agitata nelle forme, esasperata nelle gamme cromatiche, sfiorando i limiti del linguaggio espressionistico, come si evidenzia negli ultimi suoi capolavori: la “Notte stellata” e il “Campo di grano”, eseguiti rispettivamente nel 1889 e 1890. Si spara un colpo di rivoltella il 27 luglio 1890, ma la conseguente morte avviene due giorni dopo.

Autoritratto di Vincent Van Gogh, 1889,
Autoritratto, 1889, olio su tela, 60 x 49 cm., Courtauld Gallery, Londra

L. Vitali, Precursori: Vincent Van Gogh, in “Domus”, novembre 1934

Se Parigi lo fa pittore, e grande pittore, Van Gogh non rinunzia neppure negli ultimissimi anni a certe sue predilezioni curiosissime. Vi sono pittori coscienti, che vivono in un mondo dove tutto risponde con perfetta coerenza alla loro concezione dell’arte, che sanno eleggersi i propri progenitori e li venerano con una fedeltà che non ammette confusioni; non si può dimenticare la complessità di mente di un Delacroix, la precisa lucidità ed il caustico rigore di un Degas, che non si lascia mai prendere la mano da nessuno. Van Gogh è l’opposto : questo ex-mistico ha serbato slanci fanatici, generose aspirazioni messianiche, ideologie spesso mal digerite, e, nel campo della pittura, in contrasto con il suo istinto prepotente, ammirazioni assurde, che stanno a dimostrare la totale assenza d’un discernimento critico. Meissonier gli parrà sempre un maestro qu’on ne peut dépasser, degnissimo di stare accanto ai prediletti Millet, Delacroix, Daumier; adora Monticelli, vorrebbe pouvoir faire des bleus camme Ziem e, naturalmente, con grande scandalo e disprezzo di Gauguin, detesta l’olimpico Ingres. Il contrasto fra le opere e la mediocrità di certe idee di Van Gogh non potrebb’essere più palese, più deciso; esso trae origine dalla disordinatissima educazione estetica, compiuta a pezzi e a bocconi, come capita sempre agli autodidatti, ma soprattutto rimette gli squilibri e le candide ingenuità della sua mente di magnifico barbaro.

Comunque sia, più delle contraddizioni e dellle confusionarie preferenze d’un pittore, contano le opere, anche se queste non si possono disgiungere da quelle. Ed il biennio parigino, durante il quale Van Gogh conosce Pissarro e Guillaumin, Seurat e Toulouse-Lautrec — uomini rappresentativi di due generazioni — e si fa amico di Gauguin e di Émile Bernard — questo ex-rivoluzionario, oggi ridotto al più accademico ed inutile italianismo —, è ricco di opere diseguali come propositi, se non come valore. …

In pochi altri artisti la vita fu tanto legata all’arte, ma oltre le vicende tragiche dell’esistenza, contano le opere. Van Gogh ha preparato trent’anni di pittura; quel che presentiva, s’è avverato. Partito dall’Impressionismo, intesa la lezione dell’Oriente per l’impiego dell’arabesco disegnativo e delle preziosità coloristiche, egli si riallaccia al movimento romantico, ma lo supera per l’esasperata intensità della visione. Egli non rompe i ponti con il naturalismo, ma va oltre; le sue magnifiche allucinazioni, che non preludono in nessun modo e in nessun momento all’arte astratta, aprono la via all’Espressionismo. Egli ne è il fondatore primo o, come dicono ora i nuovi savi, il maggior colpevole.  Lo ha scritto L. Vitali, Precursori: Vincent Van Gogh, in ‘Domus, novembre 1934)

Altri cenni critici su Van Gogh

Alcune significative opere di Van Gogh

Tessitore al telaio (1884), I mangiatori di patate (1885),  Paesaggio al tramonto (1885),  Natura morta con Bibbia e candelabro (1885),  Un paio di scarpe (1887),  Il Restaurant de la Sirène ad Asnières (1887) ,Vaso di altee (1886), Donne che portano sacchi di carbone (1882), Due girasoli (1887) , Giapponeseria: Oiran (1887) , Fritillaria imperiale in un vaso di rame (1887) ,L’Italiana (1887), Ritratto di père Tanguy (1887-1888), I girasoli (1888) ,La Mousmé seduta (1888) , Seminatore al tramonto (1888) , Salici al tramonto (1888),  Ritratto di Eugène Boch (1888),  Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles (1888) , Vaso di girasoli (1888) ,Ritratto di Joseph Roulin (1888) , Ritratto di Millet (1888),  Les Alyscamps (1888),  La casa gialla (1888) ,  Il caffè di notte (1888) , La camera da letto (1888)  La sedia di Gauguin (1888)  L’Arlesiana (1888)  Spettatori nell’arena (1888)  La sedia di Vincent (1888), Donne bretoni (1888) La Berceuse (1889) Ritratto del dottor Rey (1889) Autoritratto (1889)  Davanti al manicomio di Saint-Rémy (1889)Il giardino di Saint-Paul (1889) Lillà (1889)  Iris (1889) Vaso con iris (1889) Natura morta con tavolo da disegno, pipa, cipolle e cera (1889) Notte stellata (1889) Autoritratto (1889) Il dormitorio di Saint-Paul (1889) Campo di grano con cipressi (1889) La ronda dei carcerati (1890)  L’Arlesiana (1890)  Ramo di mandorlo in fiore in un bicchiere (1890)  Casolari con il tetto di paglia a Cordeville (1890) Ritratto del dottor Gachet (1890) Marguerite Gachet nel giardino (1890) Marguerite Gachet al piano (1890) La chiesa di Auvers (1890) Campo di grano con corvi (1890)  Il castello di Auvers al tramonto (1890)

Musei e gallerie dove sono custodite le opere di Van Gogh:

  • Albright-Knox Art Gallery di Buffalo Courtauld Gallery di Londra.

  • Civico Museo d’Arte Contemporanea di Milano.

  • Carnegie Museum of Art di Pittsburgh.

  • Barnes Foundation di Philadelphia.

  • Art Gallery dell’Università di Yale.

  • Kunstmuseum di Berna.

  • Kunstmuseum di Basilea.

  • Metropolitan Museum of Art di New York.

  • Collezione Bührle di Zurigo.

  • Kunsthaus di Zurigo.

  • Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

  • Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.

  • Museum Folkwang di Essen.

  • Museum of Art di Baltimora.

  • Musée d’Orsay di Parigi.

  • Institute of Arts di Minneapolis.

  • Museo Puškin di Mosca.

  • Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo.

  • Museum of Fine Arts di Boston.

  • Museum of Modern Art di New York.

  • Musée Rodin di Parigi.

  • National Gallery di Washington.

  • Neue Pinakothek di Monaco.

  • Museum of Art di Indianapolis.

  • Rijksmuseum Kröller-Müller Museum di Otterlo.

  • National Gallery di Londra.

  • Stedelijk Museum di Amsterdam.

  • University Art Gallery di Yale.

  • Paul Getty Museum di Los Angeles.

  • Wadsworth Atheneum di Hartford.

  • Van Gogh Museum di Amsterdam.

  • Städelsches Kunstinstitut di Francoforte.

    Frammenti:

    • Mi addolora tanto che i miei rapporti con i pittori siano così freddi … Van Gogh lettera dell’autunno 1882.
    • Passo di rado una giornata senza far niente … Van Gogh lettera del 9 settembre 1882.
    • Crede che io m’infischi della tecnica e che non cerchi di acquistarla? … Van Gogh nella lettera ad Anthon van Rappard, Nuenen, aprile 1884.

Lettere di Van Gogh dal 1881 al 1885

Lettere di Van Gogh dal 1881 al 1885 (testo tratto dai “Classici dell’Arte” Rizzoli Editore)

Le lettere di Van Gogh (162 – 429)

Ogni brano ha il suo corrispondente numero e la data della lettera dal quale è tolto, per di più dal nome del destinatario, quando questi non è di Theo Van Gogh. Tutti i numeri che sono presenti nelle lettere tra le parentesi quadrate sono quelli dei dipinti ai quali si accenna, secondo la configurazione della catalogazione.

162. – L’Aia, dicembre 1881. Ho parlato a Mauve in questi termini: “Che ne diresti se per un mese venissi a importunarti chiedendoti aiuto e consiglio? Sono sicuro che, dopo, sarò riuscito a vincere le prime miseriole del mestiere della pittura. Bene, Mauve mi ha fatto sedere immediatamente davanti a una natura morta dove troneggiava un paio di vecchi zoccoli in mezzo a vari altri oggetti, e così ho potuto mettermi subito al lavoro.

228. – L’Aia, fine agosto 1882. Ieri, verso sera, nei boschi, ero intento a dipingere un terreno leggermente digradante, coperto di foglie di faggio secche, quasi polverizzate. Il terreno era di un colore rosso bruno, in alcuni tratti più chiaro e più scuro in altri, e queste sfumature erano maggiormente accentuate dalle ombre degli alberi che le striavano di strisce più o meno cupe, a volte nitide, a volte semisfocate. Il problema consisteva — e l’ho trovato molto difficile — nell’ottenere la giusta intensità di colore, nel rendere la forza, l’enorme compattezza, di quel terreno; e solo dipingendo mi sono accorto, per la prima volta, di quanta luce c’è ancora nel crepuscolo. Io dovevo cercare di conservarla, quella luce, rendendo al tempo stesso lo scintillio e la profondità di tutta quella gamma di colori…. Ti descrivo la natura, e non saprei dire nemmeno io sino a che punto sono riuscito a coglierne un riflesso, nel mio schizzo; tuttavia, so perfettamente che sono stato colpito da quell’armonia di verde, di rosso, di nero, di giallo, di turchino, di bruno e di grigio. Però, per dipingere questo, ho dovuto rompermi la schiena. Per il terreno sono stato costretto a consumare un tubetto e mezzo di bianco – benché il terreno fosse molto scuro — e, inoltre, del rosso, del giallo, dell’ocra scura, del nero, della terra di Siena, del bistro: e il risultato è un bruno rossastro che va tuttavia dal bistro a un rosso vino cupo, e perfino al livido, al biondo e al rossastro. Inoltre c’è ancora il fondo del terreno e una striscia sottile di erba fresca che imprigiona la luce e scintilla radiosamente: era difficilissimo a rendersi. Ecco, comunque, un abbozzo, a proposito del quale posso affermare, checché se ne dica, che ha un certo valore e che esprime qualcosa. Mi sono detto, mentre lo dipingevo: non mi muoverò di qui prima di essere riuscito a mettervi un riflesso dell’autunno, qualcosa di misterioso, una certa sincerità. Ma poiché l’effetto è di breve durata, ho dovuto lavorare in fretta e ho subito reso le figure con pochi colpi energici di pennello. Avevo notato che i tronchi giovani erano solidamente radicati nel terreno, e ho incominciato a dipingerli con il pennello; ma poiché i tocchi si confondevano a mano a mano con l’impasto del suolo, ho premuto allora direttamente il tubetto di colore sulla tela, per indicare le radici e i tronchi, e poi li ho rimodellati con l’aiuto del pennello. Sì, eccoli piantati, ora, diritti nella terra: ne spuntano fuori, ma sono saldamente radicati a essa. In un certo senso sono felice di non aver imparato a dipingere: forse avrei imparato a trascurare un effetto del genere. Adesso dico: no, ecco esattamente ciò che Voglio; se questo non va, pazienza, non va; ma voglio cercare di dipingerlo lo stesso, pur ignorando come superare l’osta
colo. Non saprei dirti come me la cavo. Mi sono sistemato con un foglio bianco davanti al punto che colpisce la mia attenzione, guardo quello che ho dinanzi agli occhi, e mi dico: questo foglio bianco deve diventare qualcosa; torno a casa insoddisfatto, lo metto da parte, e quando mi sono un po’ riposato vado a guardarlo in preda a un’angoscia indefinibile. Sono sempre insoddisfatto, perché ho ancora troppo nitido nella mente il ricordo di quello stupendo angolo di natura per essere contento, ma questo non m’impedisce di ritrovare nella mia opera un’eco di ciò che mi aveva colpito, e mi accorgo che la natura mi ha detto qualcosa, mi ha parlato, e io ho trascritto in stenografia le sue parole. Benché alcune parole della mia stenografia siano indecifrabili, benché possano esservi errori o lacune, resta nondimeno qualcosa di ciò che la foresta, la spiaggia e le figure mi hanno detto; e non è il linguaggio addomesticato, convenzionale, derivato da una maniera studiata o da un sistema, ma è ispirato dalla natura stessa. Ecco un altro scarabocchio delle dune. C’erano laggiù piccoli arbusti le cui foglie, bianche da una parte e verde scuro dall’altra, stormiscono e brillano continuamente. Nello sfondo, cupi boschi cedui. Come vedi, consacro tutte le mie energie alla pittura e scavo il problema dei colori: finora me n’ero astenuto, e non lo rimpiango. Se non mi fossi dedicato al disegno, non sarei attratto da una figura che mi appare come una terracotta incompiuta, e non ne sarei colpito. In questo momento ho l’impressione di trovarmi in alto mare: devo consacrare alla pittura tutte le forze di cui posso disporre. Se vorrò dipingere su tavola o su tela, ci saranno spese: tutto costa caro, anche i colori sono cari, e la mia riserva si esaurisce presto. Ma pazienza, sono le difficoltà nelle quali incorrono tutti i pittori, e perciò dobbiamo soppesare i nostri mezzi. So tuttavia con certezza di possedere il senso dei colori e che questo senso si svilupperà sempre più, perché ho la pittura l’ho nel sangue. Non so dirti quanto ti sono grato del tuo aiuto così generoso e disinteressato. Ti penso spesso e faccio voti perché la mia opera diventi buona, interessante, virile, in modo che essa possa darti al più presto qualche soddisfazione.

 229. – L’Aia, 9 settembre 1882.  Sento in me una tal forza creativa che sono sicuro verrà il giorno in cui sarò in grado di produrre regolarmente ogni giorno cose buone. Passo di rado una giornata senza far niente, ma ciò che faccio non è ancora quello che vorrei. Mi capita tuttavia di provare l’impressione che ben presto sarò in grado di creare opere remunerative, e non mi stupirei se questo accadesse da un giorno all’altro. In ogni caso, sento che la pittura ridesterà ancora, indirettamente, qualcosa in me.

 239. – L’Aia, autunno 1882. Mi addolora tanto che i miei rapporti con i pittori siano così freddi e che, come ti ho già scritto prima, non ci si possa sedere amichevolmente tutti insieme intorno alla stufa, per esempio in una giornata piovosa come questa, per guardare dei disegni o delle stampe, e incoraggiarci a vicenda. Vorrei chiederti una cosa: sarebbe possibile trovare a poco prezzo, in commercio, alcune stampe di Daumier, e quali? Gli ho sempre riconosciuto un gran talento, ma solo da poco mi rendo conto che vale ancora di più di quanto credessi. Se sai dei particolari interessanti su di lui o se hai veduto qualcuno dei suoi disegni più importanti, ti sarei grato di dirmelo.

 309. – L’Aia, primi di agosto 1883. Recentemente, mentre dipingevo, ho sentito risvegliarsi in me una potenza del colore più forte e diversa da quella che avevo posseduto finora. Può darsi che il nervosismo di questi giorni derivi da una specie di rivoluzione nei miei metodi di lavoro; avevo già tentato di ottenere questo cambiamento e vi avevo molto riflettuto. Ho spesso cercato di evitare la secchezza, nelle mie opere, ma finivo sempre con il ricadere nello stesso difetto, o pressappoco. Da qualche giorno una strana debolezza m’irnpedisce di lavorare come al solito, e si direbbe che questo mi serva, anziché impedirmi; quando, invece di studiare le articolazioni e di analizzare la struttura degli oggetti, ho lo spirito più o meno disteso e guardo le cose attraverso le ciglia, mi sembra di vederle meglio, come macchie di colore in contrasto reciproco. Sono curioso di conoscere l’evoluzione e la conclusione di questo fenomeno. Mi è capitato di stupirmi di non essere maggiormente colorista, perché il mio temperamento mi porta a esserlo: finora, però, il mio senso dei colori non si è ancora sviluppato. Ripeto, sono curioso di conoscerne la conclusione. In ogni caso, vedo chiaramente che i miei ultimi studi sono diversi dagli altri. … Vivo dunque come un ignorante, il quale sa con certezza una cosa sola: in pochi anni devo assolutamente terminare un determinato lavoro. Non è necessario che mi affretti tanto, perché non servirebbe a nulla: devo seguitare a lavorare con calma e serenità, il più regolarmente e ardentemente possibile. Il mondo non m’interessa se non per il fatto che ho un debito verso di esso, e anche il dovere, dato che mi ci sono aggirato per trent’anni, di lasciargli come segno di gratitudine alcuni ricordi sotto forma di disegni o di quadri, non eseguiti per compiacere a questa o a quella tendenza, ma per esprimere un sentimento umano sincero.  

R 43. – Nuenen, aprile 1884. Ad Anthon van Rappard. Crede che io m’infischi della tecnica e che non cerchi di acquistarla? Oh, certo, se non ci riesco o lo faccio in modo poco soddisfacente, per dire ciò che voglio dire mi sforzo di perfezionarmi, ma non mi preoccupo affatto di usare un linguaggio simile a quello degli oratori (si ricorderà sicuramente di essere stato Lei a fare questo paragone: forse che l’oratore o gli ascoltatori ne trarrebbero molto vantaggio, se qualcuno, dovendo dire qualcosa di utile, di vero e di necessario, lo dicesse in termini poco comprensibili?) … Ma ritorniamo ai pittori: lo scopo e il non plus ultra dell’arte consistono forse nelle curiose macchie di colore e nella fantasia del disegno che si chiamano “eleganza della tecnica”? Certamente no. Si pensi a un Corot, a un Daubigny, a un Dupré, a un Millet o a un Israels, vale a dire a pittori che sono indiscutibilmente dei grandi precursori. Ebbene, il loro valore è al dilà della pittura, la loro opera è tutt’altra cosa da quello che vuole la gente chic. … Ciò significa che bisogna sacrificare la tecnica, allo scopo di dire meglio, più esattamente, più nettamente e più sinceramente ciò che si ha da dire, e con il minor fracasso possibile di parole. ……  In quanto a me, anche quando sarò più padrone del pennello di quanto lo sono attualmente, mi prefiggo di affermare sistematicamente che non so dipingere. Mi capisce bene? Continuerò a dirlo anche quando avrò trovato un procedimento mio personale, più completo e più conciso di quello attuale. … Il sentimento positivo che l’arte è una cosa più grandiosa e più sublime della nostra personale abilità, della nostra personale capacità e della nostra scienza personale … il sentimento positivo che l’arte è una cosa che, pur essendo fatta da mani umane, non è un prodotto soltanto manuale, bensì sgorga da una fonte più profonda della nostra anima … Scopro nell’abilità e nella conoscenza tecnica, nei riguardi dell’arte, un aspetto che mi ricorda ciò che nella religione si definiva ‘indisciplina’. … Gli studi di Corot sono stati per me una lezione, quando ho avuto l’occasione di vederli: già allora ero stato colpito dalla loro diversità da quelli di tanti altri paesaggisti.

 372. — Nuenen, giugno 1884.  Da quello che mi hai detto dell’ ‘impressionismo’, ho ben compreso che è tutt’altro da ciò che credevo; ma che cosa si debba intendere con questa parola, non mi è ancora completamente chiaro. Per quello che mi concerne, trovo, per esempio in Israèls, tali e tante cose, che non ho curiosità o desiderio d’altro; voglio dire: di cose più nuove.

 386. – Nuenen, novembre 1884.  Da quando sei venuto a trovarmi, è sopravvenuta nel mio colore una trasformazione di cui già avevo il presentimento durante la tua visita, e vedrai che, dopo un certo numero di studi che dovrebbero essere terminati fra un paio di mesi, i miei tentativi dimostreranno in modo innegabile che io qualcosa so, e proprio in fatto di colore. … Non credo d’ingannarmi circa Tersteeg e Mauve,’quando oso affermare che vi sono buone speranze per interessarli e convincerli. Bisogna convincerli con il colore, e, se mi darò da fare, vedo il mezzo di dimostrar loro in modo per
suasivo che io possiedo il concetto e il sentimento del colore. E poi, i ritratti sono sempre più richiesti, e non ci sono molti che possano farne: tenterò d’imparare a dipingere una testa conferendole carattere. Proprio in questi ultimi tempi mi sono appassionato a questo, perché il sentimento del colore mi si afferma di continuo.

 390. – Nuenen, dicembre 1884.  Il realismo, oggi lo si esige, se ne sente più che mai il bisogno: quel realismo che ha carattere e serietà. Voglio dirti che, per ciò che mi riguarda, cercherò di andare diritto per la mia strada, dipingerò ciò che è assolutamente semplice e soprattutto le cose più comuni.  

394. – Nuenen, febbraio 1885.  Sono sempre occupatissimo a dipingere teste. Dipingo tutta la giornata e la sera disegno. A questo modo ne ho già dipinte almeno una trentina e disegnate altrettante. Con il risultato che adesso vedo la possibilità di poterlo fare ancora meglio, tra non molto. Penso che, in genere, questo mi aiuterà a dipingere la figura. Oggi ne ho fatta una in bianco e nero su uno sfondo color carne. Sono pure sempre occupato a far ricerche sul blu. Qui i contadini sono quasi sempre vestiti di blu. Il grano maturo o lo sfondo delle foglie secche di un faggete, che esaltano le sfumature sbiadite di turchino cupo e di azzurro chiaro, le fanno cantare grazie a questo contrasto con i toni dorati o il rosso bruno; e ciò è di un effetto bellissimo che mi aveva colpito sin dal principio. Qui la gente porta istintivamente il turchino più bello ch’io abbia mai visto. È una tela grossolana, tessuta in casa, di cui l’ordito è nero e la trama blu, il che da un tessuto rigato nero e turchino. Quando è un po’ sciupato, un po’ scolorito dal vento e dalla pioggia, assume una tonalità incredibilmente calma e delicata che mette in risalto il colore della pelle; insomma, blu quel tanto che basta per risaltare su tutti i colori, nei quali sono inclusi elementi arancione, e scolorito quel tanto che basta per non stridere. Ma si tratta soltanto di una questione di colore, mentre, al punto in cui sono, ciò che per me soprattutto conta è la questione della forma. Credo che il modo migliore per esprimere la forma sia una coloritura quasi monocroma, i cui toni differiscano soltanto per intensità e valore: La fonte di Jules Breton, per esempio, è dipinta pressoché in un unico colore. Ma conviene studiare a parte ciascun colore in rapporto con la sua antitesi, prima di essere assolutamente sicuri di ciò che si fa e di poter raggiungere l’armonia.

 400. – Nuenen, aprile 1885.  A mio modo di vedere, Millet, come uomo, ha indicato ai pittori una strada che Israels e Mauve, per esempio, i quali vivono in una discreta abbondanza, non indicano. Perciò lo ripeto: Millet è ‘papa Millet’, vale a dire il consigliere, la guida dei giovani pittori in tutto. La maggior parte di quelli che conosco (ma non ne conosco molti) dovrebbero essergli grati di questo. Per ciò che mi conceme, la penso come lui e credo incondizionatamente a ciò che dice. 

402. – Nuenen, aprile 1885.  C’è, credo, una scuola di impressionisti, ma non ne so gran che. Quello però che so benissimo è chi sono i pittori veri, originali, intomo ai quali i pittori di contadini e di paesaggi devono girare come intorno a un asse: Delacroix, Millet, Corot e gli altri. È una mia impressione personale, non esattamente formulata. Voglio dire: esistono (più che persone) regole, principi, verità fondamentali sia per il disegno che per il colore, cui bisogna evidentemente arrivare, se si scopre che hanno qualcosa di vero. Per ciò che concerne il disegno, per esempio, esiste il problema di disegnare in tondo, vale a dire, per le figure, basando il disegno su piani ellittici. È quanto gli antichi greci sentivano già e che resterà vero sino alla fine dei tempi. Ma per ciò che concerne il colore, esistono problemi eterni, per esempio quello che per primo Corot pose a Francais, quando Francais (il quale si era già fatto un nome) domandò a Corot (il quale invece non aveva ancora nessuna fama, se non negativa o decisamente cattiva), quando Francais, ripeto, si recò da Corot per porgli alcune domande: “Ma che cos’è un tono spezzato? Che cos’è un tono neutro?”. Il che si può meglio dimostrare su una tavolozza che formulare con parole. Ebbene, ciò di cui voglio convincere … è appunto la fede solida, sicura, che ho in Delacroix e negli antichi. E che è pure vero, per esempio, che il quadro al quale sono inchiodato [n. 151] è tutt’altra cosa dell’illuminazione a mezzo di lampade di un Dou o di un van Schendel. Non è forse superfluo richiamare l’attenzione sul fatto che una delle più belle scoperte dei pittori di questo secolo è stata la pittura dell’ombra che è ancora colore.

 404. — Nuenen, aprile-maggio 1885.  Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani [n. 151], ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole.

 405. — Nuenen, maggio 1885. Per ciò che conceme le attuali pitture più chiare, ne ho vedute talmente poche, in questi ultimi anni. Ma, per quanto riguarda il problema, ho ancora riflettuto parecchio. Gorot, Millet, Daubigny, Israèls, Dupré, altri ancora, dipingono anch’essi quadri chiari, vale a dire che ci si può vedere attraverso, in tutti gli angoli, a tutte le profondità, per quanto profonda sia la gamma dei colori. Eppure, tra quelli che ho testé nominato, non ve n’è nessuno che dipinga, alla lettera, il tono locale: seguono la gamma dalla quale hanno incominciato, seguono la loro idea come colore, come tono e come disegno. E che le loro luci, considerate a parte, siano quasi sempre dei grigi schietti, che per contrasto danno al quadro l’impressione di esser chiaro, è una verità che tu devi avere l’occasione di osservare ogni giorno.

 406. — Nuenen, maggio 1885.  Trovo interessante quello che mi scrivi del Salon. Vedo che hai capito che cosa intendevo dire per colori spezzati, l’arancione spezzato dal blu e viceversa … . Vi sono anche altre combinazioni, ma quella dell’arancione sovrapposto al turchino è logica, così come il giallo al lillà; e lo stesso vale per il rosso al verde.

 408. — Nuenen, maggio 1885.  In questi giorni, disegnando una mano e un braccio, ho messo in pratica il precetto di Delacroix: “Non partire dalle linee di contorno, ma dal centro”. Questi soggetti offrono buone occasioni di prendere come punti di partenza delle ellissi. Ciò che cerco d’imparare così non è il disegnare una mano, ma un gesto; non una testa matematicamente esatta, bensì il profondo della sua espressione. Per esempio, lo zappatore che annusa il vento quando alza un attimo il capo o parla. Insomma, la vita.  

409. — Nuenen, maggio 1885.  Che cosa ha detto Portier dei Mangiatori di patate [n. 151]? So benissimo che la tela ha dei difetti, ma, rendendomi conto che le teste che dipingo adesso sono sempre più vigorose, oso affermare che I mangiatori di patate, assieme alle tele che dipingerò in avvenire, resteranno. L’anno scorso i colori mi hanno spesso gettato nella disperazione, ma ora lavoro con maggior sicurezza.

410. – Nuenen, 1° giugno 1885.  Mi capita a volte di morire dal desiderio di rivedere il Louvre e il Lussemburgo, e un giorno dovrò studiare la tecnica e il colore di Millet, di Delacroix, di Corot e di qualche altro. Ma non è urgentissimo, mi sembra. Più lavoro, più questo studio mi sarà vantaggioso, se un giorno potrò consacrarmici. Il fatto è che si ha bisogno sia della natura sia dei quadri. Rifletto tutti i giorni soprattutto sulla gamma cromatica, sull’intensità e sul contrasto dei colori delle tele.

418. – Nuenen, luglio 1885.

Sono talmente nauseato da tutti i quadri esotici dipinti in studio! Ma andate un po’ a sedervi fuori! Dipingete sul posto ! Vi capiteranno ogni sorta di avventure. Per esempio, sulle quattro tele che riceverai ho dovuto togliere almeno un centinaio di mosche, forse anche di più; senza contare la polvere, la sabbia eccetera, e senza contare inoltre che quando si sono portate delle intelaiature per due ore attraverso la brughiera e le siepi, passando, un ramo o qualcos’altro avrà graffiato la tela eccetera. Senza contare che si rientra, dopo aver portato tutta quella roba e dopo una camminata di un paio d’ore, stanchi, accaldati; che i modelli presi a caso non stanno fermi come i modelli di professione, e che infine l’effetto cambia con il cambiare delle ore della giornata. … Di’ a Serret che sarei disperato se le mie figure fossero buone; digli che non le voglio accademicamente esatte, digli che intendo dire che, se si fotografasse un uomo che zappa la terra, è garantito che non zapperebbe. Digli che trovo splendide le figure di Michelangelo, anche se le gambe sono decisamente troppo lunghe e le anche e le cosce troppo larghe. Digli che a parer mio Millet e Lhermitte sono dei pittori veri per il fatto che non dipingono le cose quali sono, aridamente analizzate e scrutate, ma quali le sentono i Millet, i Lhermitte e i Michelangelo. Digli che la mia grande aspirazione è d’imparare a dipingere tali inesattezze, tali anomalie, tali alterazioni, tali trasmutazioni della realtà, che ne escano, perché no, delle menzogne, se vogliamo, ma più vere della verità letterale. … Dipingere il personaggio contadino in azione: ecco, lo ripeto, ciò che è essenzialmente moderno, il nocciolo stesso dell’arte moderna, una cosa che non hanno fatto ne i greci, ne il Rinascimento, ne la vecchia scuola olandese. Ecco la cosa alla quale penso tutti i giorni. Questa differenza fra i grandi e i piccoli maestri di oggi (i grandi: per esempio Millet, Lhermitte, Breton, Herkomer; i piccoli: per esempio Raffaeli! e Régamey) e le vecchie scuole, devo dire che non l’ho trovata spesso veramente e apertamente espressa negli articoli sulle belle arti. Pensaci un po’ e dimmi se non ti pare che ho ragione. Il personaggio del contadino e dell’operaio, lo si è incominciato a dipingere come un ‘genere’; ma oggi, con Millet per maestro eterno, è al centro stesso dell’arte moderna, e vi resterà. Individui come Daumier bisogna venerarli, perché sono tra i pionieri.  

R 55. – Nuenen, agosto 1885. Ad Anthon van Rappard.  Credo nondimeno che, anche se seguito a produrre opere nelle quali si potranno ritrovare difetti, volendole considerare con occhio critico, esse avranno una vita propria e una ragion d’essere che supereranno i loro difetti, per coloro soprattutto che sapranno apprezzarne il carattere e lo spirito. Non mi lascerò facilmente incantare, come si crede, nonostante tutti i miei errori. So perfettamente quale scopo perseguo; e sono fermamente convinto di essere, nonostante tutto, sulla buona strada, quando voglio dipingere ciò che sento e sento ciò che dipingo, per preoccuparmi di quello che gli altri dicono di me. Tuttavia, a volte questo mi avvelena la vita, e credo che molto probabilmente più d’uno rimpiangerà un giorno quello che ha detto di me e di avermi ricoperto di ostilità e d’indifferenza. Io paro i colpi isolandomi, al punto che non vedo letteralmente più nessuno.

426. – Nuenen, ottobre 1885.

Questa settimana sono andato ad Amsterdam e quasi quasi ho avuto soltanto il tempo per vedere il Museo e nient’altro. … Non so se ricordi che a sinistra della Ronda di notte, di riscontro dunque ai Sindaci dei drappieri, c’è un quadro (fino ad oggi mi era sconosciuto) di Frans Hals e P. Codde [La magra Compagnia} : una ventina di ufficiali in piedi. Ci hai fatto caso? Ebbene, per quel solo quadro (specie per un colorista) vale la pena che si faccia il viaggio apposta ad Amsterdam. C’è un personaggio, quello del portabandiera, nell’angolo tutto a sinistra, contro la cornice, una figura che, dalla testa ai piedi, è dipinta con un grigio, chiamiamolo grigio perla, di un tono neutro caratteristico, ottenuto apparentemente mescolando dell’arancione e del turchino in modo che questi due colori si neutralizzino reciprocamente; facendo variare questo tono fondamentale, facendolo qui un poco più chiaro là un poco più scuro, tutto il personaggio da l’impressione di essere dipinto con un solo grigio: nondimeno, le calzature di cuoio sono di un materiale ben diverso da quello delle uose, delle pieghe dei calzoni, del giustacuore; tutto ciò è in colori diversi, eppure tutto è fatto con dei grigi che appartengono a un’unica famiglia. Stammi bene a sentire. In questo grigio egli si prepara ora a mettere del turchino e dell’arancione, e un po’ di bianco; il giustacuore ha dei nodi di nastro di raso di un azzurro delicato divinamente dolce; la sciarpa e la bandiera sono arancione, il colletto bianco. Arancione, bianco, turchino, come i colori nazionali di allora, l’arancione e il turchino a fianco a fianco, combina
zione stupenda, su un fondo grigio; i due colori, sapientemente mescolati, li chiamerò dei poli di elettricità (sempre in materia di colore), ravvicinati in modo che si distruggano a vicenda accanto a quel grigio e a quel bianco. Altrove, nel quadro, altre combinazioni di arancione accanto a un altro bianco; ancora altrove, dei neri meravigliosi accanto a dei bianchi squisiti. Le teste, sono una ventina, sprizzanti vita e spirito, e fatte con un sol colore ! Le forme superbe di tutti quei personaggi in piedi! Ma il pezzo d’uomo arancione, bianco e turchino, nell’angolo sinistro del quadro: raramente ho veduto un personaggio più divinamente bello. È unico. Delacroix ne sarebbe impazzito; io sono rimasto letteralmente inchiodato sul posto. … Il quadro dei Sindaci è perfetto, è il più bei Rembrandt; ma La sposa ebrea (calcolata di minor valore), che quadro intimo, di dolcezza infinita, dipinto con una mano di fuoco! Vedi, Rembrandt, nei Sindaci, è fedele alla natura, benché anche in questo caso, e sempre del resto, si elevi sovrano alle massime altezze, all’infinito. Nondimeno, era anche capace di altro, quando non provava il bisogno di essere letteralmente fedele alla natura come in un ritratto, quando era libero di ‘idealizzare’, di essere poeta, cioè creatore. Ed è questo che egli è nella Sposa ebrea.,

429. – Nuenen, ottobre 1885.

In questo preciso momento la mia tavolozza è in fase di disgelo, la sterilità degli inizi è finita. Mi capita ancora, e spesso, di cozzare la testa contro i muri quando incomincio qualcosa, ma i colori seguono quasi da se stessi; e prendendo un colore come punto di partenza, ciò che ne deriva, e come mettervi vita, mi si presenta chiaramente allo spirito. … I veri pittori sono quelli che non fanno il colore locale: è quanto dicevano un giorno Blanc e Delacroix. Da questo non posso forse chiaramente dedurre che un pittore fa bene se parte dai colori che sono sulla sua tavolozza, invece di partire da quelli della natura? Voglio dire che quando, per esempio, si deve dipingere una testa e si guarda attentamente la natura che si ha davanti, si ha il diritto di pensare: questa testa è un’armonia in rosso bruno, violetto, giallo, ma tutto è spezzato. Io metto dunque sulla mia tavolozza un violetto, un giallo e un rosso bruno, e li spezzo gli uni con gli altri. Della natura conservo una certa sequenza, una certa esattezza per quanto conceme il posto dei colori, e la studio per non commettere sciocchezze, per restare ragionevole; ma che il mio colore sia alla lettera esattamente fedele, questo conta meno per me, purché sulla mia tela appaia bello come nella vita. … Supponiamo che io debba dipingere un paesaggio autunnale, degli alberi con foglie gialle. Bene. Che differenza fa se lo concepisco come una sinfonia in giallo, e che il mio giallo fondamentale sia o’no il giallo delle foglie? Ciò aggiunge o toglie ben poco: molto dipende, e direi anzi che tutto dipende, dal sentimento che provo dell’infinita varietà di toni di un’unica famiglia.

Secondo tè questa è una pericolosa inclinazione verso il romanticismo, un tradimento nei confronti del ‘realismo’; ti sembra che sia ‘dipingere chic’ il provare più amore per la tavolozza del colorista che per la natura? Ebbene, sia! Delacroix, Millet, Corot, Dupré, Daubigny, Breton e altri trenta non rappresentano forse il cuore e l’anima di questo secolo in fatto di arte pittorica? Tutti costoro non hanno forse le loro radici nel romanticismo, anche se lo hanno trasceso? Il romanzo e il romanticismo rappresentano tutta la nostra epoca : .il pittore deve avere immaginazione e sensibilità.

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Citazioni e critica su Van Gogh attraverso gli anni

Citazioni e critica su Van Gogh

(citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Pagine correlate all’artista: Vita artistica – La critica dal 1890 – Le opereLe opere 2Le opere 3 – Il periodo artistico – Le lettere di Van Gogh – Bibliografia

Cosa hanno detto i critici della Storia dell’arte su Vincent va Gogh:

G. castelfranco, l.a pittura moderna 1860-1930, Firenze 1934: Nulla v’è di più balordo e di mentalmente più detestabile che voler dedurre dalla fine tragica di questi uomini, i cui nervi troppo deboli o oscuramente insidiati non hanno retto allo sforzo della vita, i caratteri della loro opera; ma è indubbio che in tutta l’opera della maturità di Van Gogh è una impostazione psicologica che turba. Non è solo una visione nuova come in Cézanne, ma una posizione sentimentale eccezionale : egli sente la natura come eccitata fibra a fibra, nella sua vita fisica, senza pace ne meta. Lo spetta­colo più sereno, più vitale, più calmo, un cam­po, una strada con dei castagni, dei fiori in un vaso, gli si scompone davanti in uno scoppiettare di forme minute, a colori ultrapotenti, che si accalcano, vibrano, urlano disperatamente.

Siamo al penultimo atto della fine del mondo, quando il mondo sta per disfarsi in un caos rutilante. Visione sentitissima, in un uomo di doti stragrandi; che ha portato a tutto un repertorio pittorico nuovo; a questa sua pennellata che non profila, ne da una singola luce, ma intero un particolare, un elemento-forza, balzante, del soggetto; questo suo colore abbacinante, tutto sole, che conosce ombre quasi solo nelle rughe delle pennellate. E tutto ciò avrà una influenza grande sui pittori della generazione seguente.

G. L. luzzatto, Vincent Van Gogh, Modena 1936: Questo è il prodigio di Van Gogh : la veemenza con cui, nella sua fantasia, ogni elemento caratteristico diventa intensamente espressivo. Pa­re talvolta Van Gogh dipinga con le unghie e con il fiato, ma riesce a infondere il respiro sulla terra, fra una massa di paglia gialla e un fremito di ali per il cielo.

L. hautegoetjr, Van Gogh, Monaco-Ginevra 1946:  Van Gogh non ha cessato di voler essere e di essere se stesso. Naturalismo e Romanticismo erano nel fondo del suo temperamento, ed egli, essere ipersensibile, ne esagerò gli aspetti : accentuò il carattere, insistette sulle forme, esaltò i colori, semplificando, riassumendo. Ecco perché Albert Aurier potè affermare che Vincent era sintetista : poiché, insieme con il carattere, è l’apparenza ciò che ci colpisce, l’emozione che un oggetto provoca in noi, Vincent si è sforzato di rendere in tutta la sua forza la sensazione ch’egli prova; e poiché la sensazione dipende dal nostro stato fisico, dagli umori del momento, la pittura non rappresenta più esclusivamente il carattere del modello, ma esprime altresì il carattere dell’autore : forme e colori non rispondono soltanto a dati oggettivi, ma a stati d’animo soggettivi, diventano simboli; ed ecco, dunque, perché Vincent può mere classificato fra i simbolisti.

M. valsecchi, Van Gogh, Firenze 1952:  [A Parigi] Van Gogh arriva in tempo per assestare gli ultimi colpi all’edonismo impressionista. In questa funzione di liquidatore, ha la stessa importanza e determinatezza di Cézanne. Due strade opposte : quella di Cézanne, che risponde a un’idea statica e spaziale della natura, condurrà la pittura a esprimersi per volumi, a costo magari di un eccesso di geometria, e sarà un’operazione che interesserà da vicino, vent’anni dopo, i cubisti; quella di Van Gogh condurrà invece la pittura a esaltarsi nel suo stesso colore, nel ten­tativo di esprimere arbitrariamente ma con più intensità uno stato d’animo, un riflesso emotivo della natura, e sarà un’operazione che interesserà i ‘Fauves‘ e gli Espressionisti. … Forse nessun altro occhio di pittore s’è con­sumato come il suo a interrogare ogni forma, ogni colore, ogni vibrazione di luce. Se si fa caso alle opere che nascono nel biennio provenzale con un fiotto precipitoso (“dipingo come preso dalla rabbia”, scrive a Theo), ci si avvede che Van Gogh non ha mai abbandonato la sua tendenza mistica; ne ha cambiato soltanto la dire­ziono, il punto finale di contemplazione. Non può dimenticarsi; non si è mai lasciato assorbire dalla natura; semmai l’ha assorbita in sé, componendola secondo le cadenze del suo sogno e le illuminazioni della sua fantasia, allo stesso modo che, durante gli anni olandesi, se ne servì per esprimere una sua idea del dolore del mondo.

F. arcangeli, L’alfabeto di Van Gogh, in ‘Paragone’, maggio 1952: A me personalmente non resta che rimpian­gere che una vocazione di pittore non abbastanza nativa, che le insidie di una mente troppo meto­dica, almeno a tratti, non ci abbiano dato che intensi inviti a capolavori che non vennero : tali mi paiono anche le opere più belle del tempo di Arles. La qualità dei risultati non toglie nulla alla grandezza e all’importanza storica dell’impresa : ci sarà sempre da amare questo moderno Icaro. Le sue ali parvero sopraffatte dal sole troppo cocente: era troppo violento il soffio, temuto, del Arial; troppo assordante lo stridore delle cicale della Crau, che gli ronzava nella niente insieme a certe aspirazioni, a certi ricordi compresenti e un po’ confusi : i Greci, i ‘primitivi’, gli antichi olandesi, la musica di Wagner; e perfino letture su Dante e Boccaccio, e la no­stalgia petrarchesca dei lauri e delle rose di Valchiusa. Troppe, troppo grandi cose. Tuttavia, non si ammirerà mai abbastanza la coscienza deliberata, umile ed esaltata ad un tempo, con cui Van Gogh affrontò la sua impresa. Dice una lettera commoventissima del 10 di maggio : “Non mi ricordo più chi ha definito questo stato : ‘essere colpiti a morte dall’immortalità’. Si capisce che la carrozza da noi tirata arreca utilità a persone che nemmeno conosciamo … Pur nella certezza di non essere affatto prossimi a morire, tuttavia abbiamo la precisa sensazione che la cosa è più grande di noi e che siamo una piccola cosa e che, per diventare un anello della catena degli artisti, dobbiamo pagare un alto prezzo di salute, di giovinezza, di libertà …”. Nessuno po­trà negare a Van Gogh il diritto di essere con­siderato un anello, e che importante anello della catena degli artisti : il più accanito, urgente sti­molatore, intanto, di quei ‘coloristi come non ve n’erano mai stati’, e che saranno alcuni fra i più grandi maestri del nostro secolo, da Matisse a Soutine. D’altra parte, se il pronunciarsi dell’inedito colorismo di Van Gogh nell’estate di Arles ha qualche cosa di esplosivo, sappiamo an­che da quante cose fosse già preparato: il pre­cedente ideale di Delacroix, quello più vicino e confuso di Monticeli;, i colori puri dei giapponesi, le meditazioni sui colori a Nuenen. Era, se mai, una bomba già carica da un pezzo, che esplode a scoppio ritardato. Non si dimentichino, e non se ne dimenticava Van Gogh, gli im­pressionisti …  Il dono da lui intelligentemente ammirato in Frans Hals, di impostare un quadro ‘di prima’ col massimo d’impeto e di giustezza (dono rinverdito, se mai, da Manet), non fu di Van Gogh ; i suoi massimi successi in questo senso furon toc­cati a forza di lavoro, non certo per vocazione nativa. Qualche cosa quasi sempre sterza, fatica, si fa trito sulla sua pagina; e gli anticipi di un espressionismo or male oscillano troppo spesso, incerto alfabeto, fra l’ardimento e l’errore di grammatica. (Ne citerò un esempio tipico: nel quadro che s’intitola Sulla soglia dell’eter­nità non mi si dica che il rapporto tra piede e calzone, nella gamba destra del vecchio, è un esempio di deformazione espressiva : questo è errore di grammatica ; quel calzone infila una gamba mancante, che stava partendo dal piede in tutt’altra direzione). La maggior gloria dell’estate di Arles resta la violenza dell’invenzione cromatica; eppure, nemmeno per questa parte il nostro appagamento è pieno : quei colori sono stesi troppo densamente, troppo ciecamente, perché splendano di vero splendore. Avrebbe dovuto, Van Gogh, sfoltire la materia; ma quel sapiente rapporto per cui un colore brilla vera­mente sul bianco della tela, che lo illumina dall’interno con la sua candida violenza, fu inven­zione dei ‘fauves’, di Matisse anzitutto. Van Gogh non toccò mai quella vivente stratosfera dei sensi; fu colorista inedito, è certo, ma non quel ‘colorista non mai veduto’ di cui sognava; di cui del resto, con eroica umiltà, si rassegnava ad essere l’affaticato e temerario annunciatore. La massima intensità, il massimo splendore lo rag­giunge ancora dove non taglia interamente i ponti coll’impressionismo. … Ma quando, come nei famosi Girasoli, il colore sembra stendersi uniforme come una docile crema, più o meno densa di pasta, sottratta a ogni luce fisica ; quando egli sembra toccare il culmine del suo misticismo naturistà, non mi pare affatto ch’egli giun­ga a quello splendente traguardo che fa dire a Rimbaud: “Enfin, o bonheur, o raison, j’écartai du ciel l’azur, qui est du noir, et je vécus, étincelle d’or de la lumière nature”. Al confronto, quest’oro di Van Gogh si fa bella illusione, opaco splendore; più vicino alla decorazione che al rapimento. Non per niente quei girasoli piacevano tanto a Gauguin; e il Giappone si rivelava un mito da equivalere a quello rischiosissimo di Tahiti. Un equilibrio vi è raggiunto, tra forma e colore, come raramente accade in Van Gogh ; ma non mi pare che la constatazione basti a pro­clamare il capolavoro, quando la sintesi accade secondo una grammatica troppo facilmente ripetibile, in una sorta di alto artigianato. I gialli di Van Gogh : quante volte ci siamo sentiti as­sordare da questa bella, ma troppo facile favola della pittura contemporanea al suo nascere ; belli quei gialli, ma come il colore ancor vergine dentro il tubetto; e Van Gogh aveva troppa fede, da troppo tempo, in quell’alfabeto cromatico che aveva in mente fino da Nuenen; troppa fede nella purezza materiale dei colori, e perciò pochi stimoli a ritrovare un interno rapporto che la riscatti

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Autoritratto di van Gogh del Settembre 1888

Autoritratto di van Gogh del Settembre 1888

Autoritratto di van Gogh del Settembre 1888
Vincent van Gogh: Autoritratto del settembre 1888, 62 x 52 cm. Cambridge (Massachusetts) Fogg Art Museum.

Prima serie di opere    Terza serie di opere

Sull’opera: “Autoritratto (busto, di tre quarti verso destra)” è un dipinto autografo di Van Gogh realizzato con tecnica ad olio su tela nel settembre del 1888 (periodo di Arles), misura 62 x 52 cm. ed è custodito a Cambridge (Massachusetts) nel Fogg Art Museum.

L’opera è firmata ma non è datata dall’artista. Il quadro è dedicato a Gauguin: “A mon ami Paul G.”

Questo dipinto è uno tra i meglio rappresentati da Van Gogh, che lo realizzò nello stesso periodo in cui visse insieme a Paul Gauguin, convivenza che poco più tardi portò allo sfortunato gesto che cambiò di botto la vita dell’artista in esame, ovvero al taglio dell’orecchio destro.

Autoritratto di Vincent van Gogh del Settembre 1889

Autoritratto di Vincent van Gogh del Settembre 1889

Autoritratto di Vincent van Gogh del Settembre 1889
Vincent van Gogh: Autoritratto del 1889, 65 x 54 cm. Parigi Museo d’Orsay.

Prima serie di opere   Seconda serie di opere

Sull’opera: “Autoritratto del 1889 (Busto, di tre quarti verso sinistra)” è un dipinto di Van Gogh realizzato con tecnica ad olio su tela nel settembre 1889 (periodo di Saint-Rémy), misura 65 x 54 cm. ed è custodito a Parigi nel Museo d’Orsay. L’opera non è firmata né datata dall’artista, ma è citata nelle sue lettere n° 604, 605, 607, w 14 e 638.

Van Gogh realizzò un’innumerevole serie di autoritratti nel corso della sua vita artistica, e quello in esame è considerato fra i più significativi, per alcuni il migliore.

Fu realizzato nel periodo di Saint-Rémy in manicomio quando l’artista aveva appena superato una devastante crisi di follia, durante la quale tentò di togliersi la vita cercando di avvelenarsi con le sostanze dei colori.

Nell’epistolario di Van Gogh, a proposito di questo dipinto, in una lettera indirizzata al fratello Theo, si legge: “Noterai come l’espressione del mio viso sia più calma, sebbene a me pare che lo sguardo sia più instabile di prima”.

Autoritratto estate 1887 con cappello di feltro di Vincent van Gogh

Autoritratto estate 1887 con cappello di feltro di Vincent van Gogh

Autoritratto estate 1887 con cappello di feltro di Vincent van Gogh
Vincent van Gogh: Autoritratto dell’estate 1887 con cappello di feltro, 44 x 37,5 cm. Amsterdam Rijksmuseum Vincent Van Gogh.

Seconda serie di opere   Terza serie di opere

Sull’opera: “Autoritratto dell’estate 1887 con cappello di feltro (busto di fronte verso sinistra)” è un dipinto di Van Gogh realizzato con tecnica ad olio su tela nel 1887, misura 44 x 37,5 cm. ed è custodito ad Amsterdam nel Rijksmuseum Vincent Van Gogh.

L’opera in esame, considerata fra i dipinti più celebri dell’artista, segna una considerevole svolta stilistica nella carriera artistica di Van Gogh.

Infatti, è proprio in questo periodo che conosce Paul Signac, il quale lo introduce all’impiego della tecnica del pointillisme per poter di realizzare un dipinto con piccole unità cromatiche.

Dopo alcune diverbi con Signac, Van Gogh abbandona questo stile ritenendolo non congruo alla sua pittura e decidendo invece di ritornare all’esecuzione di composizioni formate da ampie e corpose pennellate parallele, che portano alla rappresentazione di un’immagine compiuta.

Autoritratto estate 1887 con cappello di paglia di Vincent van Gogh

Autoritratto estate 1887 con cappello di paglia di Vincent van Gogh

Autoritratto estate 1887 con cappello di paglia di Vincent van Gogh
Vincent van Gogh: Autoritratto dell’estate 1887 con cappello di paglia, 42 x 31 cm.  Amsterdam Rijksmuseum Vincent Van Gogh.

Seconda serie di opere   Terza serie di opere

Sull’opera “Autoritratto dell’Estate 1887, con cappello” è un dipinto di Van Gogh realizzato con tecnica ad olio su tela nel 1887, misura 42 x 31 cm. ed è custodito ad Amsterdam nel Rijksmuseum Vincent Van Gogh.

La tela , sprovvista di telaio ligneo, fu incollata su un cartone, dove nell’altro lato c’era una “Natura morta con Bottiglie, scatola …”