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Citazioni e critica a Francesco Hayez

Citazioni e critica a Francesco Hayez (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Pagine correlate all’artista: Biografia – Le opere – I suoi scritti

Ciò che gli studiosi di Storia dell’arte scrivono su Francesco Hayez:

 … Vari aspetti dell’attività di Francesco Hayez sono stati deliberatamente trascurati, in primo luogo quello relativo al senso ed al significato da dare ai quadri di carattere religioso che egli dipinse, e che, se da una parte rievocano accademismi settecenteschi, per un’altra hanno accenti e grazie di una nuova serenità. Troppo siamo ancora lontani da una spiegazione compiuta dello spirito religioso che s’agitò tra i personaggi (e sono tra questi il Rosmini e il Manzoni) che furono vicini all’artista, e troppo siamo lontani dalle possibilità di comprendere come le angosce spirituali più segrete di un’età possano diventare pensosità d’arte.

Non si è nemmeno data importanza agli elementi paesistici o a quelli che definiscono ambienti architettonici nei paesaggi, perché in tali elementi più assai di una vicinanza cordiale alla natura appaiono bravure di mestiere che sanno rendere limpidità atmosferiche e parvenze dissolte in lontananze serene che rientrano tra le migliori possibilità della bravura di maniera. Altri punti sono stati lasciati senza spiegazioni. Non si è approfondito, così, il motivo per il quale il pittore nel trattare soggetti a lui vicini o contemporanei (come nella Distribuzione delle ricompense dopo la battaglia di Wagram o in quello con la visione di Magenta dopo la battaglia) sentì svegliarsi una nuova visione della sua ‘storicità’ che nel primo caso aveva creduto di accostarsi a quella di Carle e di Horace Vernet; ma, nel secondo, era originalmente rivolta a dare una commozione di toni nuovi a tutti gli elementi fatti rientrare nel quadro.      A. Nicodemi, Francesco Hayez, 1962.

L’Hayez rimane per noi sostanzialmente un neoclassico nella composizione, nei mezzi, nella tecnica, con l’aggravante, da parte sua, di mancare di ogni convinzione intima delle necessità di quel dipingere. Ne importa che il tempo ammirasse ciecamente la funzione illustrativa di quella pittura senza accorgersi della sua vacuità, e il maestro sfruttasse quella ammirazione. Egli, nel suo intimo, sapeva la verità che il pubblico ignorava, sapeva che la sua arte era in quei ritratti riguardati allora come la meno impegnativa delle sue produzioni, specchio di quella aristocrazia intellettuale di Lombardia che dal Cattaneo al Berchet, dal Manzoni al Grossi può per una generazione essere considerata l’aristocrazia intellettuale d’Italia. Egli creò nei suoi ritratti severi eppure eletti, parchi e armoniosi a un tempo, dei modelli di virile dignità e di femminile gentilezza, ed educò i pittori lombardi a contemplare la figura umana nella sua pienezza, a rispecchiare nella sottigliezza dei passaggi chiaroscurali e coloristici la finezza di una analisi psicologica trattenuta dal pudore e dalla bonomia.

Il romanticismo dell’Hayez, sincero artefice di grandi qualità e non comune penetrazione nei ritratti e nelle nature morte delle tele di soggetto contemporaneo, è come quello dei suoi confratelli allora più famosi, un romanticismo di vernice, di superficie, di soggetto, non un rinnovamento della pittura. Disegno, composizione, grammatica, tecnica, concepimento sono ancora neoclassici, sorti innanzi tutto, come spesso le opere neoclassiche, da faticose ricerche .cerebrali preoccupate della ricostruzione aderente, del segno preciso, della correttezza nella forma, dell’accostamento tradizionale dei colori.   A. ottino della chiesa, Villa Carlona, 1962.

… Ci sembra tuttavia che una vera influenza dell’Ingres sull’Hayez, di undici anni più giovane, sia da escludere: i due attingono alle medesime fonti d’un gusto nuovo, ma da quanto risulta si frequentano pochissimo. Nel complesso l’Hayez di questo periodo mostra di trar profitto più dai morti che dai vivi: anche se tributa la dovuta ammirazione, oltre che al nume di Canova, ai pittori neoclassici Camuccini e Landi, e frequenta assiduamente i futuri nazareni Minardi e Overbeck, nonché il suo coetaneo bolognese Palagi, che gli è maestro d’affresco; mentre nel 1813 soggiorna a Tivoli coi paesisti Verstappen e Chauvin, addirittura per far studi ‘dal vero’.

Già in questa prima fase si coglie quella duplice impostazione del ritratto, maschile e femminile, che si accentua nel periodo maturo. Nei ritratti femminili è un cosciente innesto del fatto fisionomico-psicologico nel cadenzato e fluido stilismo di quella che vorremmo chiamare a buon diritto la ‘linea Hayez’;

stilismo a quest’epoca già pienamente affermato nelle composizioni e nei nudi.

Nei ritratti maschili la stessa gamma di pochi toni bassi su sfondi caliginosi, rialzati dai chiari sapienti delle carni e delle trine, è al servizio d’un più fermo realismo, che dal verecondo vigore dei saggi della maturità giunge al verismo e al cromatismo spento dell’ultimo ventennio.

Parlando di stilismo e di ritmi lineari, bisogna tener conto che lo stile dell’Hayez ha il suo vero campo di prova nei quadri storico-romantici, dove, non per comodo conservatorismo, ma per fornire all’allegoria cripto-patriottica la sua forma d’elezione, egli si vale, nel plasmare e nel colorire, di quei procedimenti da atelier, già usati per l’allegoria neoclassica, che, accesi di più drammatici bagliori chiaroscurali, si rivelano i soli capaci di fornire il necessario clima irreale al racconto romantico: e vedremo infatti come tale clima si corrompa, e il pittore storico decada, quando nella tarda maturità cerca di adeguarsi alle nuove esigenze del realismo, che è il vero nemico delle ‘macchine’ teatrali romantiche.

Il vero limite della sua espressione non è il preteso contrasto fra il realismo dei ritratti e l’accademismo delle composizioni, ma casomai l’intimo dissidio fra un verismo “de man”, alquanto istintivo ed estemporaneo, e un più serio impegno di dissidio che possiamo cogliere nella tipica serie dei suoi nudi, nelle Veneri, nelle Betsabee e nelle odalische di nostalgia orientale tutta romantica …

Nonostante la conclusione in chiave di realismo della sua carriera (basta guardarsi gli autoritratti del 1881), l’Hayez non è un maestro del realismo, ma dell’irrealismo romantico, che perfino nella gran controprova dei disegni rivela la qualità più estemporanea che profondamente vissuta delle sue attitudini imitative. A noi sembra perciò che, per situarlo nel posto che gli spetta nella civiltà figurativa del nostro primo Ottocento, non si debba giudicarlo in rapporto al realismo, esaltandolo pel suo preteso ‘culto del vero’ — come fece la critica encomiastica ottocentesca — o denigrandolo pel nonrealismo delle sue opere più impegnate, come fa la critica moderna. L’esame sereno di tutto il suo curriculum rivela che nelle composizioni della gioventù egli aveva ricercato ansiosamente uno ‘stile’, mentre si abbandonava nei ritratti a certo comodo e gentile fisionomismo. Nella maturità le sue più sottili ricerche emigrano nei ritratti, ma si complicano nelle composizioni. Nella vecchiaia infine — una vecchiaia, notiamo, che comincia sugli ottant’anni — egli è forzato ad abbandonare i quadri in grande, e si riduce ai ritratti, cioè al realismo, talora perfino con un fare sommario, dove, assieme al desiderio di adeguarsi ai tempi, giocavano anche gl’impacci dell’età. L’impegno d’attuare in chiave melodrammatica e traslata le sue ‘cronache fantastiche’ se n’era andato assieme ai suoi anni migliori.      E. piceni – M. Cinotti, La pittura a Milano dal 1815 al 1915, in Storia di Milano, XV, 1962.

Hayez, quasi contemporaneo dei neoclassici, forse per la sua tradizione veneziana, restò estraneo ai caratteri di quella scuola che ebbe a Venezia scarsi seguaci. La sua volontà di rinnovamento artistico, legata ad un tentativo di riannodarsi al Settecento veneziano, non raggiunse risultati sostanziali. L’Hayez, dal Settecento e più propriamente da Gian Domenico Tiepolo, riprese quella artificiosa grafia con cui delineava i contorni delle figure e dei volti, in una astrazione che non risolve pittoricamente le forme. Fragile colorista, ben poco seppe attingere dal cromatismo veneziano. Quando tentò di irrobustire la sua tavolozza, come nel Bacio, il colore si fece lustro e falso. Fanno eccezione alcuni piccoli dipinti, in cui il languore dei verdi stinti si accorda con i gialli, e nei nudini femminili o nelle immagini delle ninfe boscherecce, emergenti fra i fogliami, il pittore ritrova una squisita castigatezza un po’ fiammingheggiante.     G. predaval, Pittura lombarda dal romanticismo alla scapigliatura, 196

… Di qui muove la ricerca di Hayez rivolta a combinare il soggetto di storia medievale o romanza (quindi vagamente nazionale) con la correttezza del disegno ingresiano, magari accentuando con la sonorità delle tinte la nota patetica; come se si fosse potuto formare uno ‘stile italiano moderno’ mescolando un po’ di Venezia e un po’ di Roma, un po’ di Tiziano e un po’ di Raffaello. Invece di armare l’artista al risoluto incontro con la drammatica realtà della storia, quello stile elaborato lo aiuta a sfuggirla: per esempio, a dichiararsi anti-austriaco raccontando la commovente storia dei Vespri siciliani (1846). È il tipico comportamento dell’intellettuale che, non volendo compromettersi ne rimanere neutrale, fa cadere dall’alto un riferimento dotto che pochi iniziati raccolgono e che lascia, si capisce, il tempo che trova. E si tradisce: non rivive il fatto storico nel furor del fare pittorico (come Delacroix), ma lo colloca sulla scena teatrale. Fondale, quinte, costumi ; illuminazione ben regolata tra fondo e ribalta; distribuzione equilibrata dei personaggi, ciascuno con la sua parte.

Muore trafitto il baritono, cantando ; cantando risponde il tenore, che dopo averlo ferito si ritrae con mossa aggraziata;

sviene come prescritto la fanciulla; il coro commenta in sordina; le comparse ripetono i gesti di circostanza. Tutto è teatro, tutto incredibilmente falso: infine, questo quadro famoso è un tipico caso di neo-gotico albertino (come il castello che, giusto in questi anni, Carlo Alberto si fece costruire a Pollenzo da uno scenografo del teatro dell’Opera, il Melano) e, come il romanticismo politico albertino, finge di cambiar tutto per non cambiare nulla.     G. C. argan, L’arte moderna 1770-1970, 1970.

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