Piero della Francesca: Storie della vera Croce – Battaglia di Eraclio e Cosroe
Piero della Francesca: Storie della vera Croce – Particolare di sinistra della Battaglia di Eraclio e Cosroe (l’assieme è assieme 329 x 747 cm). – Particolare di destra
Sull’opera: “Battaglia di Eraclio e Cosroe” è un dipinto di Piero della Francesca, appartenente al ciclo di affreschi delle “Storie della vera Croce”, realizzato con ampia collaborazione di altri pittori nel 1460, misura 329 x 347 cm. ed è custodito nella basilica di San Francesco ad Arezzo.
La “Legenda aurea” racconta che nel 615 il Cosroe, re di Persia aveva trafugato la “Vera Croce” ed immessa nel proprio trono, per far sì che “sedendo elli ne la sedia, sì come Padre (riferito all’Eterno), puosesi al lato diritto il legno de la Croce, in luogo del Figliuolo, e ‘I gallo dal lato manco, in luogo de lo Spirito santo”: così come si intravede, sull’estrema destra (particolare di destra), al lato sinistro del faldistorio (sotto il baldacchino che sembra esternamente foderato, o stranamente, in parte con aperture ed in parte no).
Le truppe del re persiano vennero sconfitte dall’Imperatore Eraclio “a lato il fiume di Danubio” (presentate per gran parte l’affresco, partendo da sinistra) e, in seguito alla vittoria, questi invitò Cosroe a diventare cristiano ma, “non volendo quelli acconsentire, trasse fuori il coltello e tagliogli incontanente la testa”, come si vede nella scena che si svolge sulla destra della composizione.
Fra i personaggi riuniti intorno al re Cosroe, che umilmente attende immobile il suo triste destino, ne “Le Vite” del Vasari sono identificati i ritratti dei committenti nelle persone di “Luigi Bacci … insieme con Carlo e altri suoi fratelli” (meglio sarebbe un identificazione in Francesco di Baccio con i nipoti Agnolo ed Andrea) e di “molti aretini che fiorivano allora nelle lettere”. Ipotesi, queste, tutte da discutere, mentre altre dello stesso Vasari sono nettamente da escludere come quando nel bel mezzo della battaglia indica “la paura, l’animosità, la destrezza, la forza e tutti gli altri effetti che in coloro si possono considerare che combattono; e gli accidenti parimente, con una strage quasi incredibile di feriti, di cascati e di morti”, contrastata dal Focillon che in questo combattendo vede sole persone che “si muovono senza fretta, come bravi operai coscienziosamente intenti al loro mestiere di uccidere”.
Come detto sopra, nella presentazione dell’opera, gli studiosi di Storia dell’arte considerano – nella stesura – una vasta collaborazione con altri pittori, che il Longhi attribuisce al solo Lorentino d’Arezzo.
Sull’opera: “Madonna di Senigallia” è un dipinto autografo di Piero della Francesca, realizzato con tecnica ad olio e tempera su tavola nel 1470, misura 61 x 53,5 cm. ed è custodito nella Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino.
La tavola pervenne alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino nell’Ottocento, proveniente dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie extra Moenia di Senigallia, dalla quale prese la denominazione predominante (riconosciuta anche come “Madonna col Bambino benedicente e due angeli”).
Della tavola non esistono documentazioni anteriori al 1822, anno in cui fu menzionata dal Pungileoni (Elogio … di G. Santi, 1822), come un abbozzo della “Madonna con il Bambino , sei santi, quattro angeli e il duca Federico da Montefeltro” (meglio conosciuta come “Pala di Brera“), il quale identificava nelle figure dei due angeli i ritratti di importanti componenti della famiglia ducale di Urbino. Ipotesi, entrambe rimaste inascoltate dal resto degli studiosi di Storia dell’arte.
Il dipinto si trova nell’inventario dell’attuale sede, steso dal Morelli e dal Cavalcaselle (fonte: “GNI” 1861), nel quale viene valutato con l’incredibile cifra di duemilacinquecento lire.
Probabilmente il così basso valore dell’opera derivava dal fatto che i due studiosi non erano proprio certi che l’opera fosse di Piero della Francesca, in quanto risulta che il Cavalcaselle (1864) l’aveva assegnata alla bottega (sia pure sotto la supervisione di Piero) e il Morelli, incerto se assegnarla all’artista o al mitico pittore di temi religiosi fra’ Carnevale (Urbino, 1420/25 – 1484). L’Anselmi (“NRM” del 1892), invece, l’attribuì senza alcun dubbio a Piero della Francesca.
L’anno successivo seguì la conferma di Adolfo Venturi (“ASA” 1893) e, qualche anno dopo, (1911) anche quella del Berenson, che nel 1897 ipotizzava vaste integrazioni collaborative di altri pittori.
Dal secolo scorso l’autografia di Piero della Francesca non ha più trovato ostacoli, trovando concorde anche la critica attuale.
Anche l’assegnazione della cronologia è universalmente riconosciuta intorno al 1470, in margini alquanto ristretti.
Sull’opera: “La resurrezione di Cristo” è un dipinto autografo di Piero della Francesca, realizzato con tecnica a fresco nel 1463-65, misura 225 x 200 cm. ed è custodito nella Pinacoteca comunale di Sansepolcro.
La tradizione ci tramanda che nella figura del guardiano ripreso di fronte (centro-sinistra) si identificherebbe il ritratto di Piero della Francesca. La stessa immagine si trova nella “Madonna della Misericordia“, e questo rafforzerebbe il peso tale ipotesi. Nella figurazione della presente composizione gli studiosi più volte hanno evidenziato svariate valenze simboliche. Il Clark vede la scena del Cristo come facente parte del sogno dei soldati dormienti, mentre il Tolnay (“GBA” 1954) fa notare che, dei quattro guardiani, soltanto due stanno dormendo (d’accordo però con il Clark sul fatto che il sogno appartenesse alla scena che si svolge sopra le loro teste), mentre gli altri rimangono colpiti dall’improvvisa visione, tanto che uno si sta coprendo gli occhi con le mani: con tale interpretazione sarebbe esplicito il richiamo a Cristo risorto quale protettore di Borgo, che vigila nella città immersa nel sonno.
Pare che l’affresco, in origine, non fosse ubicato nel Palazzo Comunale (ex sede dei Conservatori; oggi, Pinacoteca), ma vi venne trasferito in seguito alla rimozione avvenuta intorno al 1480 (più probabile prima, forse già nel ’74, da documentazione citata dal Serti e dal Tolnay). Si può verosimilmente pensare che in tale occasione furono mutilate le colonne corinzie delimitanti il dipinto.
L’autografia dell’opera è accettata all’unanimità dagli studiosi di Storia dell’arte, come pure la cronologia riferita al triennio 1463-65.
Sull’opera: Il “Dittico dei duchi di Urbino” è una serie di quattro dipinti autografi di Piero della Francesca (due sul recto e due sul verso) realizzati con tecnica ad olio su tavola intorno al 1465. Le parti misurano 47 x 33 cm. e sono custodite agli Uffizi di Firenze.
La storia
Il Dittico è dipinto anche sul verso. Nel recto sono raffigurati i ritratti di Federico II da Montefeltro e di Battista Sforza, entrambi conti Urbino, diventati poi duchi della stessa città; sul verso vengono rappresentati allegoricamente i trionfi dei due coniugi.
Il “complesso”, che in origine si trovava nel Palazzo di Urbino, probabilmente esposto in una parete della “sala udienze” (fonte: Rotondi, Il Palazzo Ducale di Urbino, ed. 1950), pervenne alla Galleria degli Uffizi di Firenze nel 1631 insieme all’eredità della famiglia Della Rovere, quando la casata ducale fu estinta.
Cronologia
Il suo primo inserimento nella storiografia artistica si deve al Masselli (in “Vasari“, ed. 1832), il quale gli assegnava una cronologia posteriore al 1460, che il Cavalcaselle spostò a non prima del 1469.
Intorno a queste due date di riferimento c’è una completa concordia fra gli studiosi, tra i quali elenchiamo il Weisbach (“RFK” 1899), il Waters, il Calzini (“A” 1901), Franceschi Marini (“Rl” 1902). Altri critici d’arte, tra cui il Pichi e lo Schmarsow (Metozzo, 1885) anticipavano tale periodo di qualche anno, e il Witting lo portava intorno al 1459-60, mentre il Berenson (1897), con il pieno accordo della critica lo posticipò nuovamente al 1465, data che appare più verosimile considerando anche ciò che più avanti riporteremo.
La tesi di riferimento al 1465 veniva sottoscritta dal Cinquini (“CN” 1, 1905, e “A” 1906) il quale vi affiancava la pubblicazione di un tema del carmelitano Ferabò, residente ad Urbino nel biennio 1465-66, dove parlava del ritratto del duca Federico da Montefeltro.
Sostennero il Cinquini grandi nomi di studiosi di storia dell’arte, come la Logan (“RA”, 1905), il Longhi (1927), Graber, Focillon Mario Salmi, Clark e Bottari.
Pochi dissentirono all’assegnazione di detta cronologia, tra i quali il Borenius (in Cavalcaselle, 1914) ed il Ragghianti, che la ritardavano però di un solo anno (1466).
Descrizione dell’opera
Ritratto di Battista Sforza
Piero della Francesca: Dittico dei duchi di Urbino: sopra, il “Ritratto di Battista Sforza”, cm. 47 x 33, Galleria degli Uffizi, Firenze
A parte la sommaria definizione di “Maschera cerea di defunta” affibbiata all’opera da Adolfo Venturi – probabilmente senza considerarne abbastanza lo stato di conservazione – la composizione risulta ricca di gradevolissime variazioni cromatiche e molto particolareggiata.
Al delicato carnato della duchessa si contrappone un cielo altrettanto tenue, mentre al forte cromatismo del vestito si oppone uno sfondo paesaggistico ben dettagliato con una efficace dilatazione spaziale.
Quel fine tratto scuro fra il viso ed il collo, che a prima vista potrebbe sembrare un’enfatizzazione di demarcazione – per altro generalmente assente nel resto del profilo – è certamente in relazione all’acconciatura (di primaria importanza nella storia del costume) e si tratta probabilmente o di un fine legaccio o, meglio ancora, d’una trecciolina di capelli.
Ritratto di Federigo II da Montefeltro
Piero della Francesca: Dittico dei duchi di Urbino: il “Ritratto di Federico II da Montefeltro”, cm. 47 x 33, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Il Clark ipotizzò un importante “pentimento” riguardo il profilo del collo, pensandolo in origine più lungo e diversamente delineato, probabilmente in diretto rapporto col le fattezze modello, mentre nell’intero contorno del viso vi leggeva un’enfatizzazione atta a rendere monumentale il tono del profilo.
Trionfo di federigo II da Montefeltro
Piero della Francesca: Trionfo di Federico II da Montefeltro, cm. 47 x 33.
Dipinto da Piero sul retro del ritratto di Federico da Montefeltro. La scritta saffica sotto la scena “CLARVS INSIGNI VEHITVR TRIVMPHO./ QVEM PAREM SVMMIS DVCIBVS PERHENNIS./ FAMA VIRTVTVM CELEBRAT DECENTER./ SCEPTRA TENENTEM.” (Trionfo eccelso conduce il chiaro (riferito a Federico da Montefeltro), che la fama duratura delle sue virtù proclama degno reggitore dello scettro, pari ai condottieri sommi). Sul carro, trainato da due candidi cavalli e guidato da un putto alato, sta il duca Federico Da Montefeltro seduto sul tronetto mentre viene incoronato dalla Vittoria; sulla piattaforma del carro, nella zona anteriore, siedono le quattro Virtù cardinali
Trionfo di battista Sforza
Piero della Francesca: Trionfo di Battista Sforza, cm. 47 x 33.
Dipinto dall’artista sul verso del ritratto di Battista Sforza. La scritta saffica sotto la scena “OVE MODVM REBVS TENVIT SECVNDIS./ CONIVGIS MAGNI DECORATA RERVM./ LAVDE GESTARVM VOLITAT PER 0RA./ CVNCTA VIRORVM.” (la donna che seppe serbare misura nella sorte prospera e vola sulla bocca di tutti gli uomini, adorna della lode delle gesta gloriose del grande marito). Due liocorni, simboleggianti la castità, trainano carro alla cui guida sta un amorino con le ali. Quattro virtù della “Teologia” accompagnano la duchessa intenta alla lettura (due sedute davanti, sulla piattaforma del carro; due che l’affiancano ai lati del tronetto).
Sull’opera: “Pala di Brera”, o “Madonna con il Bambino , sei santi, quattro angeli e il duca Federico da Montefeltro”, è un dipinto di Piero della Francesca, non completamente attribuitogli, realizzato con tecnica ad olio e tempera su tavola nel 1472-74, misura 248 x 170 cm. ed è custodito nella Pinacoteca di Brera a Milano.
Secondo la maggior parte degli studiosi, i santi nella presente composizione vengono identificati (da sinistra verso destra) in Giovanni Battista, Bernardino da Siena, Gerolamo, Francesco, Pietro Martire e Andrea (la figura con la barba bianca ubicata all’estrema destra). Il Ricci, invece, ravvisava nella quinta figura l’effige di fra’ Luca Pacioli.
L’opera pervenne alla Pinacoteca milanese nel 1810 proveniente dalla chiesa di San Bernardino a Urbino, nel cui altar maggiore risulta, da valide documentazioni, almeno dal Settecento. Andando ancora più indietro nel tempo incontriamo due citazioni relative all’opera in esame: la prima è ne “Le Vite” del Vasari, integrata nella biografia del Bramante, nei passi dove il “fanciullo, il futuro architetto studiò i dipinti di fra’ Carnevale nella chiesa di Santa Maria della Bella ad Urbino”; l’altra è un’annotazione scritta nei registri del convento di San Bernardino ad Urbino, pubblicata dal Pungileoni (Elogio storico di Giovanni Santi pittore e poeta padre del gran Raffaello di Urbino, Urbino 1822), dove si parla che la pala dell’altar maggiore fu realizzata nel 1472 da Fra’ Bartolomeo, conosciuto anche come fra’ Carnevale da Urbino, e che l’effige della Madonna viene identificata nella duchessa Battista Sforza mentre il Bambino, nel piccolo Guidalberto da Montefeltro.
Per quanto riguarda l’autografia, gli studiosi di Storia dell’arte sono d’accordo ad assegnarla a Piero della Francesca, salvo alcuni interventi di completamento e di sporadiche zone di secondo rilievo (probabilmente eseguite da di Pedro Berruguete, pittore di corte).
L’ipotesi di attribuire la pala a fra Carnevale, scartata con forza dal Cavalcaselle, ebbe un difficile proseguo.
Piero della Francesca: Storie della vera Croce – Ritrovamento delle tre croci e la verifica della vera Croce
Piero della Francesca: Ritrovamento delle tre croci e la verifica della vera Croce, 356 x 747 cm. Chiesa di San Francesco, Arezzo. Particolari: sinistro – destro
Sull’opera: “Ritrovamento delle tre croci e la verifica della vera Croce” è un dipinto di Piero della Francesca, appartenente al ciclo di affreschi delle “Storie della vera Croce”, realizzato nel 1460 (?) con aiuti (gruppo delle veneranti), misura 356 x 747 cm. ed è custodito nella basilica di San Francesco ad Arezzo.
La premessa alle storie raffigurate da Piero della Francesca viene così presentata nella “Legenda aurea”: Giunti nella zona indicata da Giuda si sentono fortissimi odori di spezie, talmente intensi da far convertire l’ebreo che inizia all’istante a collaborare “francamente” al ritrovamento delle croci. Si scava nel terreno e, al raggiungimento dei “venti passi”, le croci vengono riportate alla luce e quindi al cospetto di Sant’Elena che ne aveva fatta rischiesta. La scena del ritrovamento delle tre croci si svolge nella parte sinistra del dipinto, a cui viene integrata allo stesso tempo, anche la presentazione alla regina di Saba. L’Imperatrice attorniata dal suo seguito, tra cui anche un nano, segue attimo per attimo gli scavatori, dei quali su “Le Vite” del Vasari viene evidenziato quello alla destra del gruppo: “un villano che, appoggiato con le mani in su la vanga, sta con prontezza a udire parlare sant’Elena mentre le tre croci si dissotterrano, che non è possibile migliorarlo”. Sullo sfondo collinare, come un improvvisa apparizione, spicca la città di Gerusalemme con caratteristiche aretine, nella quale domina in alto la facciata rossa della chiesa di San Francesco.
L’episodio della verifica della vera Croce viene raffigurato nella parte destra del dipinto: “E, non sappiendo discernere la croce di Cristo da quelle due de’ ladroni, si (in riferimento all’Imperatrice Elena) le puose nel mezzo de la cittade aspettando ivi la gloria del Signore. Et eccoti ne l’ora de la terza, portandosi uno morto giovane a sotterrare. Giuda tenne mano al cataletto e puose la prima e la seconda croce sopra il capo del morto, ma neente risuscitoe; puosevi la terza croce: incontanente tornò a vita il morto”.
Nella scena, in una luce mattutina, la regina e le proprie dame sono inginocchiate per venerare il sacro legno (alla stessa maniera in cui viene raffigurata la scena dell’affresco de ‘”L’adorazione del legno“, ubicato frontalmente, dove invece le dame rimangono in piedi), osservate da tre personaggi con grandi e strani copricapi probabilmente di tipo orientale.
Anche in questa composizione, come in quella de “L’incontro di Salomone con la regina di Saba” (stesso comparto de “L’adorazione del legno”), l’architettura con tutti i suoi elementi riveste un rilievo risolutivo nella semplicità costruttiva della composizione, qui ancora più libera e variata: un’architettura “di gusto albertiano che, da Rimini, trapasserà poco dopo a Venezia, quasi insieme con la pittura di Piero” (Longhi in “P” 1950).
La scena è priva di ogni enfatizzazione di drammaticità e tutto viene svolto come in una rievocazione di episodi da sempre narrati, ma che si trasformano da spettacolo a vera e propria celebrazione di riti, ancor più suasivi per via della semplicità in cui appaiono le azioni dei personaggi.
Riguardo all’autografia, l’ammissione di una estesa esecuzione di Piero della Francesca è universale tra gli studiosi di storia dell’arte, salvo sicuri interventi di collaboratori, da identificarsi probabilmente nel solo gruppo delle veneranti, compresa naturalmente Sant’Elena (fonte: Toesca).
Sull’opera: “Adorazione del sacro legno e l’incontro con Salomone con la regina di Saba” è un dipinto appartenente al ciclo di affreschi delle “Storie della vera Croce”, realizzato Piero della Francesca (con aiuti) nel 1452, misura 336 x 747 cm. ed è custodito nella basilica di San Francesco ad Arezzo.
Descrizione
L’albero spuntato posto sopra la tomba di Adamo si conservò fino all’epoca di Salomone (970 -930 a.C. circa), quando questi lo fece abbattere.
La tavola che ne ricavarono non poteva essere impiegata in nessuna maniera perché talvolta risultava troppo grande, talvolta troppo piccola, facendo infuriare coloro i quali avevano il compito di modificarla ed assemblarla, tanto che “gli artefici, adirati, si riprovarono e gittaronla in un luogo perché fosse ponticello a’ viandanti” (sul Siloe, un piccolo lago che si trovava nelle vicinanze).
La regina di Saba, che arrivò all”incontro per ascoltare “la sapienza di Salomone e volendo passare il detto laghetto, dove il legno era posto, vidde per ispirito che il Salvatore del mondo dovea essere appiccato (riferito al crocifisso da appendere) in quello legno; e però non volse valicare sopra quello legno”, si genuflesse per meglio venerarlo (vedi parte sinistra della composizione), circondata dalle proprie dame.
Sulla sinistra, in secondo piano, gli staffieri stanno dialogando tra loro in attesa che si compia il rito. Sullo sfondo, una meravigliosa paesaggistica collinosa nella quale dominano due grandi alberi.
Nella raffigurazione di destra, dove l’ “ordine di colonne corinzie divinamente misurate” (Le Vite del Vasari) si oppone alla naturale paesaggistica coronante la scena dell’Adorazione, viene raffigurato l’incontro di Salomone con la regina di Saba, rispettivamente attorniati da dignitari e dame.
È bene osservare che in tutto l’ambito della “Legenda aurea”, tale incontro non riveste nessun interesse; allora perché tanto rilievo da parte dell’artista? Tale scena potrebbe mettere in evidenza l’interessamento di Piero per il mondo aulico, non certamente per sfarzosità ma per la controllata intonazione del cerimoniale.
Particolari dell’adorazione del sacro legno:
Particolare sinistro dell’Adorazione del sacro legno e l’incontro con Salomone con la regina di Saba.
Particolare destro dell’Adorazione del legno e l’incontro con Salomone con la regina di Saba.
Particolare dell’Adorazione del legno, cm. 55.
Particolare dell’Adorazione del legno, cm. 55.
Particolare dell’incontro di Salomone con la regina di Saba, cm. 90.
Particolare dell’incontro di Salomone con la regina di Saba, cm. 70.
Piero della Francesca: San Benedetto da Norcia ed Angelo annunziante
Polittico della Misericordia: San Benedetto da Norcia ed Angelo annunziante, rispettivamente cm. 54 x 21 e 55 x 20,5, Pinacoteca Comunale di Sansepolcro.
Sulle opere: “San Benedetto da Norcia ed Angelo annunziante” sono due dipinti di Piero della Francesca, appartenenti al “Polittico della Misericordia”, realizzati con tecnica mista (tempera ed olio) su tavola nel periodo 1445-62, misurano rispettivamente 54 x 21 e 55 x 20,5 cm. e sono custoditi nella Pinacoteca Comunale di Sansepolcro.
San benedetto da Norcia: Eccetto alcuni studiosi, fra i quali il Clark che evidenzia una stesura pittorica più o meno parziale di qualche collaboratore, l’autografia del “San Benedetto da Norcia” viene assegnata con tutta sicurezza a Piero della Francesca da gran parte dai critici di Storia dell’arte, soprattutto fra gli studiosi più recenti.
Sempre secondo il Clark, la mano del collaboratore dovrebbe essere quella stessa che realizzò i “Santi” dei pilastrini del tempo, Andrea e Bernardino, nel registro maggiore.
L’angelo annunciante: Per l’opera in esame, l’autografia viene universalmente riconosciuta all’artista, e per lo più considerata coeva del “San Benedetto da Norcia” e degli altri componenti cuspidali (anche qui con la piena disapprovazione parere del Clark).
Sull’opera: “L’Annunciazione” è un dipinto autografo di Piero della Francesca, appartenente al ciclo di affreschi delle “Storie della vera Croce”, realizzato nel 1455, misura 329 x 193 cm. ed è custodito nella basilica di San Francesco ad Arezzo.
Diverse ed abbastanza divergenti sono state le ipotesi avanzate dagli studiosi riguardo l’interpretazione della tematica.
La scena dell’opera in esame, se presa fuori dal contesto dell’intera narrazione, porterebbe certamente alla tipica “Annunciazione” a Maria. In questo contesto, invece, tale interpretazione potrebbe risultare fuorviante.
Sul tema c’è disaccordo fra gli studiosi di storia dell’arte. Per lo Springer (1880) l’affresco poteva rappresentare l’annuncio dell’angelo all’imperatrice Elena del rinvenimento della vera Croce, mentre per il Longhi si poteva trattare di una sintesi velata della Passione di Cristo, la quale venne però prontamente bocciata dal Clark perché non pertinente a questa “epopea cavalieresca”, come del resto si rileva nella “Legenda aurea”, che passa direttamente dagli episodi di Salomone a quelli di Costantino.
Per quanto riguarda l’autografia, tranne Adolfo Venturi (1911) che ipotizzava aiuti, gli esperti di storia dell’arte sono concordi all’unanimità ad assegnarla completamente al maestro.