La lettera del Pontormo al Varchi

La lettera del Pontormo al Varchi

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Al molto Mag. e Honorando M. Benedetto Varchi suo Hosservandiss.

El diletto ch’io so che voi, mag. M. Benedetto, pigliate di qualche bella pittura o scultura e inoltre l’amore che voi agli huomini di dette professioni portate, mi fa credere ch’el sottilissimo intelletto vostro si muova a ricercare le nobiltà e ragioni di ciascuna di queste due arti, disputa certo bella e difficilissima e ornamento proprio del vostro sì raro ingegno; et per esser ricerco con tanta benignità da una vostra de’ dì passati di dette ragioni, non sapere o poterò forse con parole o enchiostro esprimere interamente le fatiche di chi opera; pure per qualche ragione e essempio semplicemente (senza conclusione non di manco) ve ne dirò quello che mi occorre.

La cosa in sé è tanto difficile che la non si può disputare e manco risolvere, perché una cosa sola c’è ,che è nobile, che è el suo fondamento: e questo si è el disegno, e tutte quante l’altre ragioni sono debole rispetto a questo (vedetelo che chiunche ha questo fa l’una e l’altra bene); et se tutte l’altre arguitioni sono debole e meschine rispetto a questo, come si può ella disputare con questo solo, se non lassare stare questo da parte, non havendo simile a sé, et produrre altre ragioni più debole senza fine o conclusione? Come dire una figura di scultura, fabricata atorno e da tutte le bande tonda, e finita per tutto con scarpelli e altri strumenti faticosi, ritrovata in certi luoghi da non potere pensare in che modo si possa co’ ferri entrarvi o finirvi, essendo pietra, o cosa dura, che a fatica alla tenera terra sare’ difficile, oltre alle difficultà d’un braccio in aria con qualche cosa in mano, difficile e sottile a condurla che non si rompa, oltre di questo non potere rimediare quando è levato un poco troppo: questo è ben vero – oltre a questo haverla accordato benissimo per un verso et poi per gli altri non ve l’ha a ritrovare, quando per mancamento di pietra in qualche lato, per la difficultà glande ch’è in accordare proportionate tutte le parte insieme a tondo; non potendo ben mai vedere come l’ha a stare, se non fatta che l’è, e se le non sono cose minime, e’ non v’à rimedio.

Ma e’ non ara fondamento di disegno che incorrerà in errori o inavertenze troppo evidenti, che le cose minime si possono male fugire nell’una e nell’altra. ……………… perché le paino esse (e ancora migliorarle) per fare i sua lavori ricchi e pieni di cose varie, faccende dove accade, come dire, splendori, notte con fuochi e altri lumi simili, aria, nugoli, paesi lontani e dappresso, casamenti con tante varie osservanze di prospettiva, animali di tante sorti, di tanti vari colori e tante altre cose; che è possibile che in una storia che facci vi s’intervenga ciò che fé’ mai la natura, oltre a come io dissi sopra, migliorarle e co’ l’arte dare loro grazia e accomodarle e comporle dove le stanno meglio; oltre a questo è vari modi di lavorare, in fresco, a olio, a tempera, a colla, che in tutto bisogna gran prattica a maneggiare tanti vari colori, sapere conoscere i loro effetti, mesticati in tanti vari modi, chiari scuri, ombre e lumi, renessi, e molte altre appartenenze infinite. Ma quello che io dissi troppo ardito che la importanza si è superare la natura in volere dare spirito a una figura e farla parere viva e farla in piano; che se almeno egli avesse considerato che, quando Dio creò l’huomo, lo fece di rilievo, come cosa più facile a farlo vivo, e’ non si harebbe preso uno soggetto sì artifitìoso e piutosto miracoloso e divino.

Dico ancora, per gli essempi che se ne può dare, Michelagnolo non haver potuto mostrare la profondità del disegno e la grandezza dell’ingegno suo divino nelle stupende figure di rilievo fatte da lui, ma nelle miracolose opere di tante varie figure e atti begli e scorci di pittura sì; havendo questa sempre più amata come cosa più difficile e più atta allo ingegno suo sopranaturale, non già per questo ei non conosca la sua grandezza e eternità dependere da la scultura, cosa sì degna e sì eterna; ma di questa eternità ne partecipa più le cave de’ marmi di Carrara che la virtù dello artefice, perché è in migliore soggetto, e questo soggetto cioè rilievo, appresso di gran maestri è cagione di grandissimi premi e molta fama e altre degnità in ricompenso di sì degna virtù; pensomi dunche che sia come del vestire che questa sia panno fine, perché dura più è di più spesa; e la pittura panno acotonato dello inferno, che dura poco et è di manco spesa, perché levato che gl’ha quello riciclino, non se ne tiene più conto, ma havendo ogni cosa haver fine, non sono eglino eterne a un modo, e ci sarei che dire un bon dato; ma habbiatemi per scusato che non mi dare’ el cuore fare scriver più a questa penna altro che la importanza di tutta questa lettera; il che è farvi noto che vi sono ossequente e a’ piaceri vostri paratissimo. Sommi aveduto che l’à ripreso vigore e non le basterebbe isto quaderno di fogli, non che tutto questo, perché l’è ora nella beva sua; ma io perché le non vi paressino cerimonie troppo stucchevoli per non vi infastidire non la intignerò più nello inchiostro, pure che la mi serva così tanto che io noti i dì del mese che sono XVIII di febraio [1548]. Vostro Jacomo in casa. 18 febbraio 1548.

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