Citazioni e critica al Pontormo

Citazioni e critica al Pontormo (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Quello che gli studiosi della Storia dell’arte hanno detto di Pontormo:

Ne creda niuno che lacopo sia da biasimare, perché egli imitasse Alberto Duro nell’invenzioni, perciocché questo non è errore, e l’hanno fatto e fanno continuamente molti pittori : ma perché egli tolse la maniera stietta tedesca in ogni cosa, ne’ panni, nell’aria delle teste e l’attitudini; il che doveva fuggire, e servirsi solo dell’invenzioni, avendo egli interamente con grazia e bellezza la maniera moderna.   G. vasari, Le vite, 1568

[…] in somma è questa pittura [coro di S. Lorenzo] di Giacopo mirabile per colorito, nobile per disegno, et rarissima per rilievo; et se a queste doti, onde divengono le figure oltra l’altre maravigliose, fosse aggiunta l’ottima imitazione, sarebbe l’opera di vero senza pari. Perché esser non puote, mentre chi si mira quello, che è dipinto, attentamente, che si accordi l’animo, che così sia verisimile, che passi la bisogna del fatto ; la qual cosa conceputa nel pensiero, cade poscia il tutto dal vero, et riputato vano, si tiene a vile, et a nessun modo si apprezza. Et certamente se havesse imitato in guisa conforme al verisimile, leggendo nelle Sacre lettere, et recandosi nella mente, come potè di vero il fatto avvenire, sì come di Andrea del Sarto si è detto, havrebbe Giacopo agguagliato il valore de’ più chiari artefici, et per avventura superato.   F. bocchi, Le bellezze della città di Fiorenza. 1591

II Pontormo diede in un eccesso di melanconia, e per fare al naturale quelle figure del Coro di San Lorenzo state sotto l’acque del Diluvio, teneva i cadaveri ne’ trogoli d’acqua per farli così gonfiare, ed appestar dal puzzo tutto il vicinato.   G. cinblli, Le bellezze della città di Fiorenza, 1677

Alle pareti del Coro [di S. Lorenzo] veggonsi due storie a fresco di Jacopo da Pontormo : una del Diluvio universale e l’altra della Resurrezione de’ morti. Impazzò, par che accenni il Vasari, prima che ne staccasse il pennello, avviluppandosi in considerar troppo al vivo, e ridurre all’atto di espression naturale, le qualità di quei malinconici e funesti accidenti, che in vero gli scorci sono stravaganti e le attitudini sconvolte.    F. L. del migliore, Firenze città nobilissima illustrata, 1684

Quivi [in S. Lorenzo] aveva voluto emular Michelangelo, e restare anch’esso in esempio dello stile anatomico, che già cominciava in Firenze a lodarsi sopra ogni altro. Ma egli lasciò ivi ben altro esempio; e solamente insegnò a’ posteri che il vecchio non dee correre dietro alle mode.   L. lanzi, Storia pittorica dell’Italia, 1789

Michelagnolo, nel vedere qualche opera di questo giovinetto, profetizzò che costui porterebbe la pittura al cielo: profezia come tante profezie. Riuscì un sofistico, scontento di se stesso, cambiava sempre stile, disfaceva, rifaceva, ed era sempre fuori di strada. Lavorò sul gusto di Alberto Duro. D’un carattere selvaggio e bizzarro, si fece fabbricare una casetta, in cui entrava per la finestra, e poi tirava dentro la scala. Non volle lavorare per il Duca, e fece quadri che diede ai muratori per pagamento. Tolse al Salviati l’impresa della cappella di San Lorenzo : vi lavorò dodici anni, cancellando, leccando, disfacendo, rileccando: finalmente scopertosi il capo d’opera, fu magnificamente urlato.   F. milizia, Dizionario delle belle arti del disegno, 11, 1797

[…] Ma che direbbe egli mai [il Vasari, a proposito del Pontormo], se tornasse al mondo oggi, che la tedescheria, così nelle arti come nella filosofia, e in ogni altra cosa, ha sì invasato i nostri intelletti, che ci andiamo perfino privando di quel dolce canto italiano, che nell’anima si sente, per essere noiati delle astruserie delle musiche tedesche!  F. ramalli, Storia delle Belle Arti in Italia, 1845

[…] il colorito di queste tavole [le ‘storie’ Bor-gherini di Henfield] è rossastro e di tono basso, manierato il disegno ; difettose sono le proporzioni ed affettate le mosse. Questi caratteri indicherebbero il pennello del Pontormo.  G. B. cavalcaselle [-J. A. crowe], Storia della pittura in Italia, 1866 (ed. it. XI, 1908)

[…] le lodi date a questa pittura [la Cena in Emmaus] sono veramente eccessive: questo elevato soggetto è trattato così ignobilmente e con un naturalismo così triviale, che la fa venire in fastidio.  G. milane, in le vite del Vasari 1881

Quando, nelle prime ore di una mattina di alcuni anni fa, entrai nella chiesa di Santa Felicita a Firenze, non sapevo di muovere il primo passo in una dirczione che da allora ha invece impegnato ogni mio momento libero. Era un giorno d’autunno e pensavo — mi sembra di rivivere quel momento – che in una giornata così bella mi sarebbe stato possibile vedere una pala d’altare che invano avevo spesso cercato di decifrare nell’oscurità della cappella Capponi. Non mi ingannavo, infatti. La luce che irrompeva dalle finestre più alte della navata cadeva anche su quell’angolo così oscuro: e in quel fuggevole splendore vidi veramente per la prima volta la Deposizione del Pontormo. Fu il momento di una rivelazione inattesa. Mentre studiavo il quadro in un lieto stupore, mi andavo rendendo conto non solo della sua bellezza, ma anche della cecità con cui avevo accettato il pregiudizio di quelli che considerano Andrea del Sarto l’ultimo dei grandi artisti fiorentini, e che pensano che tutti i suoi contemporanei più giovani siano nell’insieme solamente dei futili eclettici la cui opera si riassume tutta negli affreschi del Vasari in Palazzo Vecchio.  F. M. clapp, Pontormo, 1914

La rigogliosa pianta dell’arte toscana, che per vari secoli aveva dato tanti frutti così squisiti e variati, dopo aver offerto i suoi due più meravigliosi doni, Leonardo e Michelangiolo, si avviava all’esaurimento ; tra i tardi prodotti ancora molto gustosi ma già alquanto grami va mentovato per primo il Pontormo […].   C. gamba, 11 Pontormo, 1921

In questo periodo del Cinquecento fiorentino, che, nonostante i sintomi di decadenza, attrae per l’intensa attività di ricerca e la forte impronta personale degli ingegni del Pontormo, del Rosso, del Bronzino, il primo, più di tutti complesso, porta, nei suoi tentativi di piegare ad espressioni nuove la linea e il colore, l’audacia e lo slancio del genio. La banalità del gusto, la monotonia del livello artistico, la mancanza di passione, che han reso sinonimo di mestiere, più che d’arte, il vocabolo di manierismo, non sono ancor proprie dei giorni in cui viveva il Pontormo, sebbene anche in lui, nel suo eccesso medesimo d’autocritica, si scorgano i segni di turbamento caratteristici d’una civiltà sul declivio […]. Tutto impressiona la sua sensibilità, accende la sua fantasia tesa verso il nuovo : ricorda Piero di Cosimo nelle costruttive luci dei primi ritratti; Michelangelo è il nume sulle cui orme volge il passo nel suo esordio artistico; intravede, per mezzo d’Andrea, il problema pittorico dello sfumato, e devia da esso per raggiungere una sua propria visione, dove il colore, non smorzato, non sgranato dall’ombra, è goduto per sé, nella sua intatta limpidezza; persino di Masaccio appare uno sporadico ricordo nel gruppo stravolto di Adamo ed Eva agli Uffizi.

Ma forse nessuno di questi grandi esempi fiorentini ebbe sul Pontormo influenza così vitale come lo studio dell’arte germanica, soprattutto per mezzo delle stampe dureriane, ove egli trova elementi più consoni a sviluppare la sua tendenza verso la linea decorativa e verso il colore puro. Mentre il proposito di attenersi ai principi di Michelangelo corrisponde con i periodi meno felici dell’arte di Jacopo, par che soltanto la visione dell’arte germanica dia libero slancio alle tendenze del suo spirito singolarissimo. e veramente illumini la sua via, riveli a lui stesso la sua personalità. La tortuosa linea gotica, soprattutto strumento d’espressione spirituale agli artisti tedeschi, diviene, passando nelle mani di questo raffinato erede della civiltà toscana, soprattutto mezzo per raggiungere espressioni di pura eleganza decorativa: forma e colore sono, nelle più significative opere del Pontormo, orientati a creare la beltà complessa d’una flora di serra, delicata e capricciosa.   A. venturi, Storia dell’arte italiana, 1932

L’invenzione di questi primi manieristi [Pontormo e Rosso] non è che un riflesso impallidito di quella dei maestri del secolo precedente; ma essa è ancora piena di suggestione, non solo perché prelude al nostro disordine, ma perché confrontata, ad esempio, con l’arte volgare e pesante della scuola bolognese che le succede, si aureola di un’ultima luce ideale […].   A. lothe, in “Nouvelle Revuc Francaise”, 1935

Un senso di sorpresa pervade chi per la prima volta veda questo quadro [la Deposizione di S. Felicita]. È un’allucinante visione di pura fantasia; sembra che i personaggi, presi da un profondo senso di sbigottimento, composti di una sostanza lunare, siano trasportati, trasportando il Cristo, in una nuvola, campati in aria ; si agitano le braccia, si curvano le teste : una luce chiarissima li pervade, e fa brillare con delicatissime trasparenze i rosa, i verdi, le carni candide e appena velate da penombre. Attonito, con la bocca semiaperta, San Giovanni sembra troppo esile per sostenere il bianchissimo corpo del Cristo. Un’altra figura giovanile, in atto di sollevare il Cristo, è fosforescente di luce e volge verso noi gli occhi spauriti nelle profonde orbite. Il gruppo delle pie donne e delle altre figure è composto nel modo più inconsueto e mosso. Mai la composizione ‘piramidale’ fu sconvolta da tanta varietà di piani e di attitudini. Un ritmo di linee curve, date dall’agitarsi dei chiari panni, dal sollevarsi a festone delle braccia, come in una cadenza, produce un movimento concitato, ma armonioso, che è la nota dominante e quasi astratta, più percettibile e anche più impressionante che l’espressione ed i gesti delle singole figure. Certo in questa musica non manca l’enfasi, ma tutto è portato ad una tale esaltazione che anche l’enfasi rientra nell’armonia.    E Toesca, in Pontormo. 1943

S’apriva ora [con la Cena in Emmaus] al Pontormo una via nuova, verso il naturalismo della pittura secentesca. Ma per seguirla egli avrebbe dovuto rinunciare alla sensitiva, intellettualistica acutezza che era in fondo alla sua visione d’artista. Solo in essa il suo spirito autocritico, teso verso liminari vibrazioni al di là di ogni certezza, poteva esprimersi intero. E tutto il momento evolutivo che segue alla Certosa è caratterizzato da questo insorgere d’un intimo dissidio tra una sintesi figurativa pienamente raggiunta e l’ansia di approfondirla ancora nell’espressione delle più inafferrabili note dello spirito.    L. becherucci, Manieristi toscani, 1944

Per la sua tradizione di cultura e la sua raffinatezza di colorista spesso la realtà più comune tra le mani del Pontormo diventa agevole e piena di scioltezza che è giusto dire signorile; ma se questo avviene senza che tale realtà perda interesse in moduli convenzionali, non torna a danno ne della particolarità ne della schiettezza delle cose raffigurate. Più problematica, perché si tiene maggiormente al letterario sensualismo manierista, è la Deposizione di Santa Felicita; si salva all’arte sia per quanto di solidamente pontormesco contiene, sia perché in quello che concede al gusto del tempo ci da l’artista in un equilibrio instabile pieno di perplessità sofferta, che non è rinuncia morale, ma diventa fascino. Eppure non cercheremo qui particolarmente il Pontormo, ma più volentieri nei ritratti, nella Conversazione, nella Cena e nelle altre opere libere. Con esse egli prende un posto pieno di significato nella pittura del Cinquecento, affermando un colorismo e un naturalismo che non sono quelli dei lombardi precursori di Caravaggio, ma vanno in senso concorde. Abbiamo studiato le ragioni che, privando il Pontormo del consenso dei suoi concittadini, artisti e pubblico, gli resero impossibile lo svolgersi con serenità e abbandono; […] aveva genio abbastanza per cercare di sottrarsi al gusto del suo ambiente, per riuscirvi il più delle volte, non per opporgli decisamente una sua convinzione. Egli sentiva fortemente le conseguenze sterilizzanti per l’arte del nuovo dissidio dualistico ed aspirava a ricomporlo, mentre Michelangelo affermava in dramma perpetuo, contro il reale, l’ideale, sempre più dolorosamente sofferto. Anche la sofferenza del Pontormo è di questo genere, e svela il basso livello spirituale e quindi artistico di tanta produzione del Cinquecento, anche se la gente se ne lascia abbagliare. Forse, è anche questa sua appartenenza a una età di crisi, la lotta con un tempo viziato come il nostro da una povertà spirituale fondamentale, che rende il Pontormo simpatico ai moderni, oltre i molti presentimenti che nel suo sradicarsi dalle convenzioni contemporanee e nelle varie esperienze ebbe modo di rivelare. Lo stesso suo andare per successivi e diversi tentativi pare avvicinarlo al modo di produrre dei nostri artisti, e c’è infatti qualche punto simile, ma non bisogna esagerare nell’analogia.   G. nicco-fasola, Pontormo o del Cinquecento, 1947

Coloro che nei fatti artistici oggidì studiano soprattutto la ragione sociale ed economica, sogliono mettere in relazione il movimento o fenomeno manierista con una serie di eventi politici, finanziari e religiosi: la lotta tra Francia e Spagna, di cui è vittima l’Italia; il contraccolpo della Riforma, e il consolidamento cattolico del Concilio tridentino; lo stringersi della classe aristocratica intorno alle grandi monarchie ed alle corti, come la granducale in Toscana, di formazione nuova; il trasformarsi dei modi della produzione, nella quale aumenta il potere del capitale privato e diminuisce quello delle corporazioni, delle gilde; cosicché l’individuo si sente sempre più tagliato fuori da un sistema di solidarietà sociale, e abbandonato a se stesso, in un mondo pieno d’incertezza e pericoli. Queste cose non sono da negare, mentre meno persuade, leggendo colesti scrittori, la maniera diretta e scoperta in cui, a sentir loro, sembrerebbe che di tali cose gli artisti del manierismo avessero coscienza e subissero gli effetti. Nell’animo degli artisti, quegli allarmi e patemi saranno invece stati sofferti, come sempre accade, una volta che erano ridotti a modi e moti di sentimento così personale ed intimo, da esserne irreperibili e irriconoscibili le lontane cause politiche, economiche e religiose. Una volta, diciamo, che erano diventati pura materia formale, sostanza di linee, colori, proporzioni : i veri argomenti di competenza dell’artista.   E. cecchi, in Diario di I. Pontorno, 1956

Jacopo da Pontorno, forse più degli altri grandi Manieristi della prima metà del ‘500, il Rosso e il Beccafumi, ebbe la capacità critica di valutare i problemi suscitati dalle più significative imprese artistiche del suo tempo : dai cartoni con le battaglie di Cascina e di Anghiari e dagli affreschi di Andrea del Sarto all’Annunziata, alle Stanze e alla Sistina. Dai suggerimenti offertigli da tali opere non tanto cercò di trarre una sintesi, quanto, incessantemente, elementi per l’origine di nuove idee. Come se la piena sintesi già raggiunta da quelle opere lo mettesse in un esaltato stato poetico, atto a toccare imprevedibili conseguenze. Ma in lui l’esaltazione poetica soffriva e cozzava contro un’ansia, tutta ‘crepuscolare’, di penetrazione e raffinamento stilistici. Dunque l’intera sua opera, salvo rare parentesi di distensione ritrovata in qualche ritratto, riflette una preoccupazione senza tregua di andare oltre quanto era stato già fatto in pittura, e dagli altri e da lui stesso.   L. marcucci, in “Quaderni pontormeschi”, 1957.

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