Sull’opera: “L’adorazione dei Magi” è un dipinto prevalentemente attribuito del Giorgione, realizzato con tecnica ad olio su tavola nel 1503-1504, misura 29 x 81 cm. ed è custodito nella National Gallery di Londra.
La Madonna, il Bambino, San Giuseppe, l’asinello, il bue ed i Magi, vengono raffigurati fuori della capanna fra i piloni di sostegno di un edificio in rovina.
Da documentazioni certe si sa che la tavola, nel 1882, apparteneva alla collezione Miles a Leight Court, catalogata con l’attribuzione al Giambellino.
Nel 1884 fu acquistata dalla National Gallery di Londra come opera attribuita al Catena (assegnazione avanzata dal Morelli nel 1880 ed accolta con favore da altri studiosi di storia dell’arte come Lionello Venturi e Berenson).
Più tardi il Cavalcaselle propose il riferimento al Giorgione, che fu condiviso da molti critici e dagli stessi Venturi e Berenson, ma con qualche riserva.
Nel 1937 il Richter appoggiava l’assegnazione al Giorgione ma considerava l’opera come lavoro giovanile, nel quale vedeva non soltanto l’influsso ma l’aiuto del Giambellino.
Anche altri studiosi di storia dell’arte, tra i quali il Morassi ed il Davies accettarono il “rapporto diretto” con il Giorgione.
L’Adorazione dei Magi è considerata dalla critica come un’opera stilisticamente affine all’Adorazione dei pastori, in un pieno inquadramento all’attività giovanile dell’artista, influenzata non solo dal Bellini ma anche dal Carpaccio.
La tavola in esame subì un restauro nel 1947.
Particolare della Madonna col Bambino e San Giuseppe
Particolare dell’adorazione (parte sinistra)
Particolare ingrandito della Madonna con il Bambino
Particolare centrale con San Giuseppe
Particolare delle figure situate al lato estremo di destra
Sull’opera: “La tempesta” è un dipinto autografo del Giorgione, realizzato con tecnica a olio su tela nel periodo 1505-1507, misura 82 x 73 cm. ed è custodito nelle Gallerie dell’Accademia, Venezia.
Descrizione dell’opera
Quello in esame, è il dipinto che più di tutti rappresenta l’artista, e che sicuramente può essere considerato come la prima opera a tematica paesaggistica della storia.
Qui il significato iconografico è assai incerto: in primo piano si trovano tre nitide figure che pare rappresentino una zingara quasi del tutto nuda che allatta il proprio figlio, ed un giovanotto in atteggiamento militaresco (questa è l’impressione che ebbe Marcantonio Michiel – 1484/1552 – quando osservò l’opera in casa di Gabriel Vendramin): “El paesetto in tela cum la tempesta cum la cingana [zingara] et soldato fo de man de Zorzi da Castelfranco”. Ma ciò che più di ogni altra cosa attira l’attenzione del fruitore del dipinto, è l’armonia coloristica e la forte sensibilità dell’artista nella creazione di effetti luministici che lo colpiscono. Il Giorgione impiega con grande disinvoltura e naturalezza le tonalità verdastre nell’atmosfera di quel paesaggio di bassa collina, immerso in una morbida luce crepuscolare, che pare scuotersi all’improvviso nel bagliore della saetta proveniente dal ventre di quel cupo cielo.
La tempesta è una delle pochissime opere del Giorgione che gli studiosi di storia dell’arte hanno sempre ed universalmente accettato come autografa.
Assai discordi invece, come già abbiamo visto sopra, sono le ipotesi iconografiche e la cronologia.
Nella collezione Vendramin (1569) era catalogata come “Mercurio ed Iside”; più tardi moltissimi studiosi hanno cercato di scoprirne l’enigmatico contenuto, per cui, secondo il Ferriguto, l’artista voleva creare un’allegoria della natura; per il Richter, invece, voleva raffigurare l’infanzia di Paride; per il Morassi si trattava invece di un’autocelebrazione, riferendosi al fatto che il Giorgione sapeva di essere un figlio illegittimo; ecc.
Nel 1569 la Tempesta apparteneva ancora alla famiglia Vendramin.
Nel 1856 era presso la collezione Manfrin di Venezia che, nel 1875, la vendette al principe Giovannelli, il quale la cedette allo Stato nel 1932.
Particolari dell’opera
Particolare dello sfondo con alberi, a sinistra.
Particolare dello sfondo con alberi, a destra.
Particolare del muretto.
Particolare della zingara che allatta il proprio figlio.
Particolare del fondo paesaggistico, lato sinistro.
Particolare del fondo paesaggistico, lato destro.
Particolare del giovane in atteggiamento da soldato.
Sull’opera: “I tre filosofi” è un dipinto del Giorgione, realizzato (con aiuti) nel 1504-1505 (1508?) impiegando la tecnica a olio su tela, misura 123,5 x 144,5 cm. ed è custodito nel Kunsthistorisches Museum a Vienna.
Nell’opera dei Filosofi, le tre enigmatiche figure, i tre magi, probabilmente Evandro, Pallante ed Enea (fonte: Wickhoff, 895), si trovano nella zona dove sorgerà Roma. Essi sono raccolti in primo piano e sopra una roccia la cui forma richiama la mano dell’uomo. La viva e folta vegetazione li avvolge e, nello stesso tempo, li mette in evidenza con un energico gioco di contrasti di chiaroscuro. La luce, che proviene da sinistra, ravviva i colori dei loro panneggi e gli rende morbido il carnato. Tra gli alberi, sulla destra, e la scura massa rocciosa vista in controluce sulla sinistra, si apre un paesaggio ed un cielo al tramonto. I colori predominanti sono quelli delle tre figure appartate in primo piano, che rappresentano un giovane e pensieroso sognatore, un vigoroso anziano ed un rassegnato orientale: tutto questo offre al fruitore dell’opera una enigmatica sensazione.
L’identificazione della tematica è stata, nell’arco dei secoli, oggetto di numerose ed accese discussioni tra gli studiosi di storia dell’arte. In un inventario, quello a noi più remoto, del 1659, il dipinto viene catalogato con il titolo de “I tre matematici”; in un altro, quello del Mechel (1783) viene riconosciuto con il nominativo de “I tre Magi che aspettano l’apparizione della stella”.
Nell’Ottocento, come pure nel Novecento, le interpretazioni non solo si intensificano ma si divaricano in tutte le direzioni: lo Janitschek (1871) ipotizza che i tre personaggi simboleggino l’antico, il medioevo e il moderno; il Wickhoff (1895), come sopra accennato, li identifica in Evandro, Pallante ed Enea; per lo Schaeffer (1910), due filosifi stanno colloquiando con Marco Aurelio; il Ferriguto (1933), analizzando a fondo il ruolo delle tre figure, pur accettando l’ipotesi avanzata dal Michiel (“in casa de M. Taddeo Contarino, 1525. La tela a oglio delli 3 phylosophi nel paese, dui riti ed uno sentado che contempla li raggi solari cum quel saxo finto cusi mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco, et finita da Sebastiano Veneziano”), li vede incarnare i tre stadi del pensiero umano: il Rinascimento nel giovane, la cultura araba nell’uomo con il turbante e il medioevo nell’anziano. Qualcuno identifica il giovane seduto, nello stesso Giorgione.
Il dipinto, che nel 1659 apparteneva all’arciduca Leopoldo Guglielmo (1614-1662), pervenne al Kunsthistorisches Museum di Vienna dalle raccolte imperiali austriache. La tela subì un consistente restauro nello scorso secolo (L. BALDASS, Die Tat des Giorgione, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», LI, 1955, pp. 103-144 ), con ottimi risultati nella stesura pittorica, attualmente più viva e luminosa.
A proposito dell’opera in esame, Lionello Venturi nel 1954 scriveva: “ciò che costituisce l’afone poetico del quadro è questa potenza di giungere con la sensibilità pittorica a intravvedere quella concezione sentimentale del mondo che fu chiamata panteismo”.
Particolari dell’opera:
Particolare del filosofo di media età.
Particolare del filosofo anziano.
Particolare degli scritti del filosofo anziano.
Particolare del filosofo giovane.
Particolare del fondo paesaggistico lato sinistro.
Particolare del fondo paesaggistico lato destro.
Particolare dei tronchi d’albero sopra i tre filosofi.
Sull’opera: “Ritratto di vecchia” è un dipinto autografo del Giorgione, realizzato con tecnica a olio su tela nel 1506, misura 68 x 59 cm. ed è custodito nel Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Molti dubbi furono avanzati nel tempo intorno a questo dipinto, con una figura certamente fuorviante come la “vecchia” ritratta che reca, tra il braccio ed il seno, l’affine aforisma “col tempo”.
Certamente il tema è lontano dal timbro e dallo spirito del Giorgione, ma materia pittorica ha le stesse valenze di quella della Tempesta.
Senza una plausibile ragione stilistica, salvo un lontano richiamo – della donna effigiata – con una vecchia nella pala di San Zeno del veneziano Francesco Torbido (1482 – 1562), il dipinto venne attribuito a quest’ultimo.
Tale assegnazione perdurò nel tempo, tanto che l’opera mantenne la sua modesta importanza, impedendo così agli studiosi di Storia dell’arte di prenderla in considerazione per ricerche più approfondite.
Soltanto nel 1949 fu presa venne considerata la preziosità della coloristica e l’alta carica umana della vecchia effigiata: “L’artista anche raffigurando quella immagine nella sua umana verità l’ha improntata senza residui oggettivi ad una trasfigurante pienezza di stile … la sintetica larghezza dell’espressione pittorica risolve ogni gusto nordico dei particolari caratteristici, portando ad una classicità moderna che supera i limiti del contenuto verista e pone problemi che diverranno a più riprese attuali” (Moschini, 1949).
Il Berenson, nel 1954, considerati i richiami stilistici alla Tempesta, ipotizzò che l’artista, con l’effige della vecchia donna, abbia voluto far vedere la potenza del tempo, prospettando come la bella “zingara” avrebbe potuto trasformarsi, appunto “col tempo”. Ma già dagli inizi del Novecento iniziarono a farsi avanti le prime ipotesi di attribuzione con Della Rovere (1903), Monneret de Villard (1904), Suida, Morassi, Moschini, Pallucchini e altri. Contrari pochissimi studiosi, tra cui Lionello Venturi.
Andando indietro nel tempo, però, si incontrano importantissime documentazioni che portano direttamente al Giorgione, tra le quali quella di G. Fogolari che vi identificò la madre dell’artista (“retrato de la madre del Zorzon de man de Zorzon”), l’inventario (1569) dei beni di Gabriele Vendramin (committente della Tempesta), dove vi è scritto che il “fornimento” reca dipinta “l’arma de cà Vendramin’, le cui tracce quale si notano effettivamente sulla cornice dell’opera in questa pagina rappresentata.
Sull’opera: “Veduta di Castelfranco e pastorello” è un disegno autografo del Giorgione, realizzato con tecnica a sanguigna su supporto cartaceo, misura 20 x 29 cm. ed è custodito nel Museum Boymans – Van Beuningen a Rotterdam.
Il disegno faceva parte, nel 1707, alla collezione Resta. Attraverso passaggi, effettuati negli anni che seguirono, pervenne a Rotterdam nel Museum Boymans – Van Beuningen. L’opera in esame è, tranne la riserva di qualche studioso di storia dell’arte (es. lo Justi), universalmente riconosciuta come autografa di Giorgione.
La figura in primo piano, che rappresenta il giovane pastore, dovrebbe essere – secondo alcuni studiosi – l’autoritratto dell’artista.
Sull’opera: “Ritratto di giovane (Giustiniano)” è un dipinto autografo del Giorgione, realizzato con tecnica a olio su tela nel 1503-1504, misura 58 x 46 cm. ed è custodito a Berlino (Staatliche Museen Gemäldegalerie-Dahlem).
Quanto detto sopra sull’opera in esame, il riferimento “Giustiniano” non è rivolto al nome del giovane effigiato ma alla “Raccolta Giustiniani” di Padova, al quale il dipinto apparteneva.
Le lettere “V V”, che chiaramente si leggono sul parapetto in primo piano non hanno avuto, nel corso dei secoli, una credibile interpretazione; verosimilmente dovrebbero costituire le iniziali del nome e cognome del personaggio raffigurato, che, molto probabilmente era lo stesso committente ed anche il primo possessore dell’opera.
Nel 1884 il dipinto, che già apparteneva alla collezione Giustiniani di Padova, passò a J. P. Richter, il quale, dopo averlo autorevolmente assegnato al Giorgione (1891), lo vendette alla Staatliche Museen Gemäldegalerie-Dahlem di Berlino. L’assegnazione all’artista si è mantenuta, in seguito, sempre con sostegno universale, fatto davvero molto raro di fronte ad un’opera priva di ogni documentazione storica.
Per quanto riguarda la cronologia, G. M. Richter, nel 1937, ipotizzava che l’opera fosse stata realizzata nel periodo giovanile del Giorgione (“dipinta approssimativamente nello stesso periodo della Giuditta”), intorno al 1504. Il Fiocco (1941), gli ritardava la data al periodo della maturità perché riconosceva in essa altre peculiarità (“il primo ritratto moderno in cui non si sente più il committente devoto ed eroico uscito da una icona, ma l’uomo solo velato di leggera malinconia”). Il Morassi, invece, riteneva che andasse riferita al periodo intorno al 1502-03 (“solo a poca distanza dalla Madonna di Castelfranco”).
Secondo gli studiosi di storia dell’arte quello in esame è senza dubbio uno dei ritratti più belli, non solo del Giorgione ma del primo Cinquecento, la cui stesura coloristica, allo stesso tempo dolce e corposa, crea effetti di luce ed ombra in perfetta armonia con tutto il contesto. Tutto questo nonostante avesse subito quella drastica pulitura avvenuta nella prima metà del Novecento, di cui parlarono il Morassi (1942) ed il Longhi (1951).
Sull’opera: “Busto d’uomo”, o “Ritratto di Terris” è un dipinto prevalentemente attribuito al Giorgione, realizzato con tecnica a olio su tela nel 1508-10, misura 30 x 26 cm. ed è custodito nella Fine Arts Gallery a San Diego (California).
Quanto detto sopra, il riferimento “Ritratto di Terris” non è rivolto al nome dell’uomo effigiato ma alla “Raccolta Currov-Terrisi” alla quale il dipinto apparteneva. Dietro la tela è riportata un’antica scritta, “15 .. di man de m.” Zorzi da Castelf…”, che avvicina all’autografia assoluta il dipinto, già prevalentemente attribuito al Giorgione. Per quanto riguarda quel “15….”, certamente trattasi di data riguardante il Cinquecento (l’interpretazione più univoca e riferita all’anno ‘1508’).
Tutto questo viene confermato più tardi dal Richter, dal Suida, dal Morassi, da Lionello Venturi, dal Coletti e da moltissimi altri, eccetto il Fiocco (1948) che l’attribuisce a Palma il Vecchio.
Prima di pervenire alla Fine Arts Gallery San Diego (California), l’opera faceva parte delle collezioni Currov e Terris.
Gli studiosi di Storia dell’arte sono portati a considerare tale opera, come uno degli ultimi lavori del Giorgione.
Sull’opera: “Venere dormiente” è un dipinto del Giorgione, realizzato (con collaboratori) intorno al 1510 impiegando la tecnica a olio su tela, misura 108,5 x 175 cm. ed è custodito a Dresda (Gemäldegalerie).
La tela in esame, uno degli ultimi dipinti realizzati dall’artista, raffigura una giovane donna nuda le cui forme, delicate ed aggraziate, sembra derivino dal dolce e ritmico andamento delle colline sullo sfondo, queste ultime, realizzate con lo stesso impegno nella creazione di morbidi effetti di luce ed ombra dal Tiziano.
Quello di proporre, come soggetto, una donna completamente nuda fu un rivoluzionario annuncio nel mondo dell’arte, tanto che molti critici considerano il “gesto” del Giorgione come uno dei punti d’origine dell’arte moderna.
Purtroppo l’artista morì prima di portare a termine l’opera e, il cielo con la paesaggistica furono terminati da Tiziano Vecellio (1480/85-1576), che più tardi, realizzò la “Venere di Urbino”, simile negli atteggiamenti e nella posa, ma sveglia ed inserita in un ambiente chiuso.
La donna ostenta un sottile ed equilibrato erotismo, che deriva soprattutto dall’espressione del volto, facendo capire di essersi addormentata consapevole degli effetti provocatori della sua sconvolgente nudità. Anche il posizionamento di entrambe le braccia e della mano sinistra contribuiscono ad aumentarne la sua calda sensualità.
Ecco come venne citata nel 1525 dal Michiel quando la vide a Venezia nella residenza di Gerolamo Marcello: “La tela della Venere nuda, che dorme in un paese cum Cupidine, fo de mano de Zorzo da Castelfranco, ma lo paese et Cupidine forono finiti da Titiano”. Cupido non è presente nella tela ma le radiografie fatte eseguire dal Posse nel 1932 ne evidenziarono la presenza.
L’opera, prima di pervenire al Museo di Dresda appartenne al re Augusto di Sassonia che l’acquisto, nel 1697, tramite il mercante d’arte Le Roy.
.Particolari dell’opera:
Particolare del corpo della Venere e sfondo paesaggistico sulla destra.
Particolare dello sfondo paesaggistico sulla sinistra.
Particolare del volto della Venere.
Particolare del fondo paesaggistico centrale.
Particolare del fondo paesaggistico con alberi e caseggiati.
Particolare del fondo paesaggistico nella zona di destra.
Sull’opera: “Concerto campestre” è un dipinto attribuito al Giorgione con moltissime riserve (alla stessa stregua attribuito al Tiziano), realizzato con tecnica ad olio su tela nel 1510, misura 110 x 138 cm. ed è custodito nel Museo del Louvre a Parigi.
La calda e dorata tonalità della luce crepuscolare aiuta a creare un atmosfera da sogno, che coinvolge anche il gruppo di ragazzi assorti – come ci racconta la tradizione – negli echi delle note di un pezzo appena terminato; in secondo piano, sotto le masse scure di alcuni alberi, un pastore sta governando un gregge.
Sulla sinistra dominano alcuni edifici, che precedono il paese, in contrapposizione ad un chiaro orizzonte, leggermente inclinato, che sembra degradare in una dilatazione spaziale infinita – oltre la tela – confondendosi con il cielo.
Secondo il critico di storia dell’arte Justi – senza alcuna esibizione di documentazione a suffragio, salvo quella dell’appartenenza ai Gonzaga – il dipinto sarebbe appartenuto alla collezione di Isabella d’Este (1474 – 1539). La prima citazione apparve nel 1627, anno in cui venne venduto dalla famiglia dei Gonzaga a Carlo I d’Inghilterra (1600 – 1649), dalle cui collezioni passò, nel 1649, ad Eberhard Jabach, un facoltoso banchiere francese; quest’ultimo lo cedette alla collezione di Luigi XIV (1638 – 1715).
Per quanto riguarda l’attribuzione, che per tradizione era riferita al Giorgione, la vicenda incominciò a complicarsi sin dal 1839, quando il Waagen l’assegnò a Palma il Vecchio, innescando un processo di complicazioni che ancor oggi non si sono affatto concluse.
Anche per il Cavalcaselle (1871) l’opera non sarebbe stata autografa del Giorgione ma di Sebastiano del Piombo. Il Morelli, nel 1880, ritornò alla tradizionale attribuzione mentre Lionello Venturi (1913) – in contrasto con il figlio Adolfo che nel 1928 lo riferiva al Giorgione – lo attribuiva a Sebastiano del Piombo.
Seguirono altre ipotesi di attribuzione di molti eminenti critici d’arte, ognuna contrastante con altre, e ripensamenti (come quello di L. Venturi che ritornò al Giorgione).
Tra le più credibili ipotesi avanzate, rimane quella del Pallucchini (1953) che suggeriva potesse trattarsi di un’opera iniziata dal Giorgione e portata a termine dal Tiziano.
Particolari dell’opera:
Particolare dello sfondo paesaggistico con casolari.
Sull’opera: “Le tre età dell’uomo” è un dipinto attribuito al Giorgione con molte riserve (oggi più attenuate, ma c’è ancora contrasti con parte della critica che l’assegna a Tiziano), realizzato con tecnica ad olio su tavola, misura 62 x 77 cm. ed è custodito a Palazzo Pitti a Firenze.
La prima citazione dell’opera in esame risale al periodo in cui apparteneva alla collezione del principe Ferdinando (1663-1713), attribuita però alla scuola lombarda.
Più tardi, nel 1832, l’Inghirami l’assegnò a Lorenzo Lotto (1480- 1556), con la piena approvazione del Cavalcaselle, mentre il Gronau (1895) ipotizzava il riferimento al Morto da Feltre (Lorenzo o Pietro Luzo, 1480-1527). Nel 1927 il Longhi propose il Giambellino (1430-1513), con la concordia del Berenson che vi integrava un Giovanni Bellini ottuagenario.
Il Ritcher avanzava l’ipotesi di P. M. Pennacchi, mentre il Fiocco pensava a Francesco Torbido (1482-1562). Finalmente, con il Morelli per primo – seguito da Kook, Morassi e Suida – si incominciò timidamente a parlare della mano di Giorgione. Oggi si parla anche di Tiziano.
Il quesito dell’assegnazione coinvolge perciò una vasta schiera di artisti che abbraccia soprattutto il Giambellino, il Tiziano, il Giorgione ed i giorgioneschi.
Ancor oggi gli studiosi di Storia dell’arte sono abbastanza divisi, tanto che Adolfo Venturi (1928) si arrese alle ricerche già prima di aver trovato i nomi da mettere a confronto. Il Pallucchini (1949), a proposito dell’opera, scriveva: “uno dei problemi attributivi più appassionanti della critica d’arte”. Il dipinto sopra raffigurato è stato inserito tra quelli del Giorgione ma, alla stessa stregua, può essere integrato con quelle del Giambellino, o del Tiziano.