Salvator Rosa: le citazioni e la critica

Salvator Rosa: le citazioni e la critica (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

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Il pensiero critico degli studiosi di Storia dell’arte su Salvator Rosa: Come il pittore di storie, così il pittore di paesaggi che pratica questo stile e questo modo d’operare, va indietro con la fantasia all’antico; e, come il Poeta, fa sì che gli elementi simpatizzino con il soggetto : sìa che le nuvole si sviluppino in masse come in Tiziano o in Salvator Rosa, sia che, come in Claude, riflettano le luci dorate del tramonto. […] (J. Reynolds)

Non posso abbandonare questo argomento senza citare due esempi, che mi vengono ora alla mente, in cui lo stile poetico del paesaggio si vede felicemente realizzato. Uno è il Sogno di Giacobbe di Salvator Rosa, l’altro il Ritorno dell’Arca di Sébastien Bourdon. Con qualsiasi dignità queste storie ci siano presentate nel linguaggio della Scrittura, questo stile pittorico possiede lo stesso potere di ispirare sentimenti di grandezza e sublimità ed è capace di comunicarli a soggetti che non sembrano affatto adatti a riceverli. Una scala contro il cielo non sembrerebbe avere la capacità di suscitare alcuna idea eroica; e l’Arca, nelle mani di un pittore di second’ordine, avrebbe fatto poco più effetto di un comune carro per la strada; eppure tali soggetti sono trattati così poeticamente in ogni parte, le partì hanno una tale rispondenza l’una con l’altra e con l’insieme, ed ogni parte della scena è così visionaria che è impossibile guardarli senza sentire in qualche modo l’entusiasmo che sembra aver ispirato i pittori.   J. reynolds, Discourses on Art, 1771 (a cura di Robert R. Wark, 1959)

[…] Gran contrasto hebbe nell’animo suo per voler sostenere, che le figure di sua mano della grandezza del naturale o più meno, fussero dell’istessa vaglia quanto quelle di minore proporzione, e di quelle piccole, et era entrato in una smania così inquieta per tante opposizioni che ne sentiva, che si era stabilito costantemente di non voler mai più dipingere quadri in piccolo; benché gli venissero offerte quantità grandi di monete. Se egli facesse bene, o male, egli medesimo il sapeva, che per una certa sua stravagante ostinazione si privava d’un utile che saria stato bastante a mantenerlo in uno stato assai più riguardevole, et haveria dato sodisfazione a molti Personaggi, che si dolevano della bestialità sua. Sentiva dirsi, che in grande egli era assai mancante nel disegno quanto alle parti, e che il colorito in quel genere non era adattato, ne naturale, che le tinte delle sue carni erano di legno, e senza sangue, e che l’arie delle teste erano tutte dispettose, e d’idea improprie, e rusticane, che li suoi panni non formavano pieghe elette, a proporzione, e che non coprivano l’ignudo con modo naturale, e scelto, che mancava con gran disordine nelli contorni, che poco intendeva l’ignudo, e che era assai invalido a rendere l’opere sue a quella perfezione, che le sa rendere un ben regolato pittor, così nel tutto come nelle parti. Si travagliava quando sentiva lodarsi, che nelli Paesi occupava il primo luoco nella gloria, nelle marine era singolare, in macchiette et in componimenti minuti di capricciose invenzioni prevaleva ad ogn’altro, nelle battaglie era unico; nel capriccio, e nelle invenzioni delle istorie pellegrine, e recondite toccava il segno maggiore; nella maestria del pennello non haveva uguale, nell’armonia del colore era il maestro; ma nelle figure grandi perdeva tutte quelle sue buone qualità, perché gli mancava il principale che gl’è lo studio. In questo io non voglio dare il mio giudizio […] ma non si può negare che egli havessi parti d’un maraviglioso Pittore, arrichito di molti accompa­gnamenti e perfezioni, e se non altro quell’essere stato autore della sua maniera, con tanto arteficio. Egli parlava di Paolo Veronese più che di tutti e gl’era sommamente a cuore lo stile dei Veneziani; ma con Rafaele non haveva molta domestichezza perché la scuola Napolitana lo chiama tosto, di pietra, e secco, e non vogliono amicizia sua. […] Salvatore fu di presenza curiosa, perché essendo di statura mediocre, mostrava nell’abilità della vita qualche sveltezza, e leggiadria : assai bruno di colore nel viso, ma d’una brunezza Africana, che non era dispiacevole. Gl’occhi suoi erano turchini; ma vivaci a gran segno, di capelli negri, e folti, li quali gli scendevano sopra le spalle ondeggianti e ben disposti naturalmente, vestiva galante; ma non alla Cortegiana, senza gale, o superfluità. Fu assai fiero nella prontezza delle risposte; assegno tale, che teneva intimoriti tutti quelli, che trattavano seco, e nessuno si arrischiava d’opponersi alle sue proposite, perché era ostinato, e forte mantenitore delle sue openioni. Nel discorrere di precetti, d’erudizieni, e di scienze non s’impegnava ne par ticolari; ma, tenendosi in largura non obligata; quando conosceva il tempo, entrava di mezzo, e s’introduceva in modo, che dava a conoscere, che non era tavola rasa, e questo, il praticava con sommo ar-teficio. S’era guadagnati molti amici e concorrenti alle sue fantasie, et anche molti mimici, e contrarij alle di lui proposizioni, e bene spesso si questionava, in qual suo congresso, e si veniva a scandalose rotture. V’erano molti suoi seguaci, molti per genio, et alcuni per boria, che gli pareva di guadagnar titolo d’uomo di proposito con praticare il Rosa; non havendo per loro istessi qualità nessuna di pregio. Il posto che si era fabricato nella professione era di stima perché seppe portarsi con accortezze, e per lo più si faceva desiderare, e pregare. G. B. passeri, Vite de’ pittori …. 1772 (ed. J. Hess, Wien 1933)

[…] Egli [Rosa] allora affidava alla sua profonda memoria quelle antiche leggende che diedero carattere ai suoi grandi quadri e ai suoi poemi seri, carattere decisamente opposto a quello delle produzioni più leggere della sua penna e del suo pennello, per le quali è ora posto alla testa della scuola romantica d’Italia, degno di essere associato a Sha-kespeare e a Byron. [. ..] Sembra comunque, dalle scene che appaiono nei suoi singolari paesaggi, di marine, montagne, rocce turrite, antiche rovine, e coste selvagge, identificate attraverso tratti particolari, così come dalla fisionomia e dal costume dei suoi bei piccoli gruppi di “figurine”, che egli deve aver vagato e studiato assai nello scenario sublime e selvaggio della Basilicata, della Puglia e della Calabria, la “Magna Grecia” degli antichi. [. . .] Quasi tutte le colonie greche si limitavano a questi lidi romantici, dove ancora si vedono le vestigia della brillante popolazione che le abitò in passato. Se già l’oratore romano potè esclamare Magna Graecia nunc non est, la desolazione che ai giorni di Salvatore copriva questo paradiso terrestre aveva il carattere di una tristezza ben più profonda. Ma tutto ciò che avevano perduto quelle contrade una volta fiorenti (il movimento dei loro porti commerciali, lo splendore delle loro scuole di filosofia) era compensato agli occhi del giovane poeta-pittore, del filosofo adolescente, dalla sublime devastazione, dalla grandezza malinconica che loro restava. […] L’avvenimento più notevole di queste escursioni ardite del Rosa nelle montagne è la sua prigionia fra i banditi che ne erano gli unici abitanti, e la sua associazione temporanea (e perfino, si dice, volontaria) con quegli uomini terribili. Non si può dubitare che egli vivesse qualche tempo coi briganti pittoreschi, che ha poi ritratto all’infinito, e benché pochi storici parlino di questa circostanza ed altri vi accennino solo vagamente, la tradizione rende il fatto autentico ed un gran numero di opere lo prova fino all’evidenza. Salvatore, epicureo per temperamento, era stoico per sistema; e molti suoi confratelli e compatrioti che gli avrebbero perdonato il genio e i successi, non dimenticarono che la sua austera moralità, la incrollabilità dei suoi principi, facevano onta ai vizi dei contemporanei, assicurandogli la stima e il rispetto dei migliori uomini del tempo. […] Milton e Salvator Rosa, il cui genio, il cui carattere e le cui vedute politiche avevano tante affinità, restarono sconosciuti l’uno all’altro, pur vivendo nello stesso tempo a Roma e a Napoli.

Il meraviglioso che Salvator Rosa amò impiegare nei suoi quadri e nelle sue poesie era specialmente tratto da quella mitologia triste che ispirò Shakespeare e costituì il fascino di Ossian. Il suo talento, creatore ed originale, respingeva con disgusto le immagini usate dalla mitologia pagana e cristiana, quei serafini dagli sguardi celesti e quegli amori dai sorrisi maligni, quegli dèi in furore e quei martiri agonizzanti. Quando circostanze imperiose lo forzarono a scegliere un soggetto nell’ambito di questi due sistemi, egli preferì Saul e la pitonessa di Endor, II supplizio di Prometeo (che cela una filosofia profonda) o la Rivolta dei giganti, dogma che in tutte le religioni si applica a un fatto fisico, evidente agli occhi di tutti i popoli. […]

La storia di Attilio Regolo, questo orribile destino di un cittadino patriota, è una delle sue satire della società che la storia ha conservato senza capire; e Salvator Rosa lo scelse per l’analogia che vi trovò con le proprie idee e i propri sentimenti. Contemplando simili scene debolmente rappresentate come sono negli annali, il cuore sanguina, Palliino si avvilisce; si pensa con tristezza all’inevitabile destino dell’uomo; ma alla vista dei magnifici orrori del Regolo di Salvator Rosa lo spettatore sconvolto rifiuta di credere a tali atrocità e, rifugiandosi nello scetticismo del secolo, aggiunge la morte di questo eroe alla lista di quei ‘dubbi storici’ che la logica minuziosa della critica moderna eleva su tutto ciò che si accosta al meraviglioso.   lady s. morgan, The Life and Times of Salvator Rosa, 1824

Salvator Rosa, un uomo originalmente dotato di un potere di mente più alto di quello di Claude, fu però infedele alla sua missione e non ci ha lasciato, io credo, alcun dono. Qualsiasi cosa facesse fu evidentemente per esibizione della propria abilità; non c’è in lui amore di alcun genere per cosa alcuna; la sua scelta degli elementi del paesaggio non è dettata dal gusto del sublime, ma da pura inquietitudine o ferocia animale, guidata da un potere fantastico di cui non poteva fare a meno. Non ha fatto nulla che altri non abbia fatto meglio, o che non sarebbe stato meglio evitare di fare; nella natura egli interpreta la contorsione come energia, il selvaggio come sublime, la miseria umana come santità e la cospirazione come eroismo. […]

È chiaro che [il Rosa] difficilmente usò studiare dal vero, dopo i suoi peregrinaggi fra i monti della Calabria; ed io non ricordo un solo suo disegno di vegetazione che non sia dimostrabilmente un fantasma dello studio… Il pittore è sempre visibilmente imbarazzato a far terminare le masse del fogliame, e sentendo (perché il Rosa ovviamente aveva un vivo senso del vero) che il ramo era sbagliato se finiva bruscamente, realizzava la sua diminuzione con una protrazione impossibile, gettando un germoglio dietro l’altro finché i suoi rami si sparpagliano attraverso tutto il quadro e infine scompaiono malvolentieri dove non c’è più spazio per proseguire. La conseguenza è che le foglie poste su questi rami non hanno adeguato sostegno, la loro capacità di far leva è sufficiente a sradicare l’albero; ovvero, se i rami son lasciati in posizione raccolta verso il centro, hanno l’aspetto di lunghi tentacoli di un complicato mostro marino, o dei’fili interminabili delle alghe, invece della ferma, sostenuta, unita e curva grazia dei rami naturali. Riconosco che il Rosa così fa in certa misura per il gusto dell’orrido e che ciò in certe scene può essere in qualche modo ammesso; ma per lo più e ignoranza della struttura dell’albero, come dimostra il paesaggio di Palazzo Pitti La Pace che brucia le armi; dove lo spirito della scena vuoi essere quieto e non animato, e ciò nonostante i rami degli alberi mostrano i soliti errori quanto mai accentuati : ogni loro forma è impossibile e il tronco non potrebbe sopportare per un attimo tanto fogliame… Io ho visto un maggior carattere spettrale nel ramo vero di una quercia ammalata che non nelle migliori mostruosità di Salvator Rosa.

[…] egli [il Rosa] mi da la […] chiara idea di uno spirito perduto. Michelet lo chiama “Ce damné Salvator”. [...] Io vedo in lui, nonostante tutta la sua bassezza, gli ultimi segni di vita spirituale nell’arte europea. Fu l’ultimo uomo cui il pensiero di una esistenza dello spirito si presentasse come una realtà concepibile… Era capace di sentimento, di fede, e di timore. La miseria del mondo è per lui una meraviglia;

non può fare a meno di contemplarla. La religione del mondo è per lui orrore. Contro di essa digrigna i denti, si infuria, satireggia e si beffa. […] Infelice Salvatore! Un po’ di simpatia al tempo giusto, una parola di vera guida forse lo avrebbe salvato. Che cosa dice di se stesso? Dispregiatore della ricchezza e della morte… Il problema, per l’uomo, non è che cosa disprezzare, ma che cosa amare.

La sua vita, per quanto di nobile le restava, poteva risolversi soltanto in orrore, sdegno, disperazione. È difficile dire quale dei tre fattori prevalesse nella sua opera, ma la sua risposta al grande problema è solamente la disperazione. Rappresentò V Umana Fragilità con imo icfaeletro dalle ali pennute che si protende verso una donna e un bambino, mentre il terreno intorno a loro è coperto di rovina e un cardo gEtXa n suo seme, unico suo frutto. “Spine, ancora, e cardi produr™-nr» * Questo tono di pensiero caratterizza tutta l’opera più seria di Saikator Rosa.     J. ruskin, Modern Painters, 1887

[Su un Ritratto di poeta a Milano, Castello Sforzesco, male attribuito al Rosa]. La bellissima, calda Mezza figura di giovane che si suppone autoritratto di Salvator Rosa è troppo bella cosa per il pittore napoletano così stento nelle figure grandi.   R. longhi, Scritti giovanili. I, 1916

[…] il Rosa apporta alla sua poesia esperienze e vedute che attengono ad un’altra arte, e perciò ne arricchisce la sostanza in modo insolito e felicemente fecondo […]. È appunto lo stile a metà strada fra lo ‘scritto’ e il ‘parlato’ che da alle satire un sapore tutto particolare ed un’attrattiva indefinibile.    U. limentani, La Satira nel Seicento, 1961

In effetti la carriera del Rosa costituisce un tributo all’intelligenza di un gran numero di connoissews romani, che lo costrinsero a dedicarsi ai piccoli, romantici paesaggi nei quali appare il suo vero genio. Ma egli la pensava in modo assai diverso, e tale era il suo desiderio di ottenere una grande commissione pubblica da essere pronto ad umiliarsi a tale scopo. In fondo stupisce che la cosa non gli riuscisse mai […].   F. haskell, Patrons and painters, 1963

Nella rinuncia alle cose esteriori, nel gusto della contemplazione, nell’insofferenza per i vincoli e per l’esteriorità del rito, nel disprezzo della ricchezza nonché dell’organizzazione politico-statale, la personalità di Salvator Rosa ha molti punti di accordo con il quietismo, il filone più antiintellettualistico della mistica secentesca. Questo modo di sentire, insieme alla tesi dell’indipendenza della fantasia dall’intelletto (nel Rosa implicita) e del carattere arazionale e intuitivo dell’arte, e infine il mito del selvaggio, del primitivo, dell’uomo nella natura allo stato elementare, pongono il Rosa sulla linea di sviluppo che va dall’affermazione del suo grande compatriota, Giovan Battista Vico, fino al romanticismo rousseauiano.    L. salerno, Salvator Rosa, 1963

[…] sembra che vi sia una associazione nella mente del Rosa fra le qualità intuitive e irrazionali del genio creativo e i misteri della magia e della divinazione. […] Rosa esalta nella sua incisione // Genio le qualità dionisiache come coesistenti con quelle apollinee, esalta l’ispirata libertà e fierezza del proprio genio in quanto bilanciato da un e-quilibrio stoico Pictor Succensor et Aequus. E benché Rosa anticipasse in tal modo il più tardo atteggiamento del romanticismo nei confronti del genio, l’artista vedeva come espressioni migliori del proprio genio il trattamento erudito di temi filosofici […].   R. wallace, The genius of Salvator Rosa, in “Art Bulletin”, 1965.

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