Madonna con il Bambino in trono (Uffizi) di Cimabue

Cimabue: Madonna con il Bambino in trono (Uffizi)

Cimabue: Madonna con il Bambino, in trono
Cimabue: Madonna con il Bambino, in trono, con otto angeli, quattro profeti, cm. 385 x 223, Galleria degli Uffizi di Firenze.

Sull’opera: “Madonna con il Bambino, in trono”, è un dipinto autografo di Cimabue realizzato con tecnica a tempera su tavola intorno al 1285-86, misura 385 x 223 cm. ed è custodito nella Galleria degli Uffizi di Firenze. 

Descrizione e stile

L’opera è conosciuta anche con il titolo di “Madonna di santa Trinità”.

La stilizzata Madonna ha una stesura cromatica tenue e delicata in un articolato ma, allo stesso tempo, gradevole disegno. I panneggi hanno un’efficacissima  brillantezza aurea alla maniera bizantina che ne affievoliscono il modellato.

L’espressione è soave ed armoniosa, ed i suoi occhi, sempre rivolti verso i fedeli, hanno uno sguardo tenero ed affettuoso. Sia la Madonna che il Bambino, in atto di benedire, esprimono grande forza e vitalità. Il trono è spazioso e maestoso e gli angeli che l’attorniano conferiscono all’insieme un’atmosfera solenne, ma alcuni di essi – soprattutto quelli al lato sinistro della Vergine – lasciano trasparire dal volto segnali di angoscia e di asprezza, come pure due dei profeti in basso (quelli centrali).

Lo stato di conservazione e il restauro

Lo stato di conservazione del dipinto non è buono ed il cromatismo è alquanto spento, mentre l’ultimo profeta a destra risulta molto danneggiato. L’oro è in più parti visibilmente ritoccato. In un antico restauro al supporto ligneo fu dato la forma quadrangolare anche nella parte superiore, a cui corrispondeva l’aggiunta di due angeli. La pregiata tavola fu riportata all’originaria forma intorno alla fine del XIX secolo e sottoposta a un severo restauro nell’ultimo dopoguerra.

La storia

Dalle Vite del Vasari (1568) si ricava che committenti furono i monaci di Vallombrosa che la chiesero per l’altare maggiore della Chiesa di Santa Trinità. Nel XV secolo (intorno al 1469-70, o forse poco dopo), per essere sostituita dalla Trinità di Alessio Baldovinetti (Firenze, 1425 – Firenze, 1499), venne spostata su un altare laterale, e quindi trasferita nell’infermeria del monastero di Santa Trinità. Ad inizio Ottocento l’opera si trovava presso l’Accademia, ove vi rimase fino al 1919, anno in cui pervenne alla Galleria degli Uffizi di Firenze.

Per quanto riguarda l’autografia di Cimabue, generalmente gli studiosi della storia dell’arte sono concordi nell’assegnarla all’artista, a partire dal Billi e dal Vasari.

“Madonna con il Bambino in trono, quattro angeli e San Francesco” di Cimabue

Madonna con il Bambino in trono di Cimabue
Cimabue: Madonna con il bambino in trono, quattro angeli e San Francesco
Madonna con il Bambino in trono, quattro angeli e San Francesco. (Particolare 12)

Descrizione e storia del dipinto

Sull’opera: “Madonna con il Bambino in trono, quattro angeli e San Francesco” è un affresco di Cimabue, realizzato nel 1278-80, misura 340 x 320 cm. ed è custodito nella chiesa Inferiore di San Francesco (transetto destro), ad Assisi. 

Un’opera molto dibattuta nel corso dei secoli

Partendo dalla zona bassa, a destra, il presente riquadro costituisce la prima composizione degli ornamenti della volta a botte. Secondo gli studiosi si tratta sicuramente di uno dei dipinti di Cimabue tra i più dibattuti per le grandi ‘problematiche’ che si sono mantenute nell’arco dei secoli.

L’autografia di Cimabue e i rifacimenti

Per quanto riguarda l’autografia dell’opera (quella di origine, cioè di prima stesura con relative rifiniture) gli esperti sono unanimemente d’accordo nell’attribuirla all’artista. Per ciò che investe la cronologia e lo stato generale dell’affresco, però, le accese controversie sembrano non finire più. Infatti, in seguito agli interventi eseguiti nella seconda metà del Novecento da parte dell’Istituto Centrale del Restauro, è apparso più di quanto non si pensasse, pesantemente compromesso da improprie ridipinture. Certamente è noto il restauro del pittore pisano Guglielmo Botti (nato nel 1829), elogiato dal Cavalcaselle (1864) e fermamente criticato dall”Aubert (1907) perché ne avrebbe “abbellito” un po’ troppo la stesura pittorica.

Altri interventi

Purtroppo – pare – l’affresco non subì soltanto il “rifacimento” ottocentesco di cui sopra accennato. Il direttore della Biblioteca Comunale di Assisi, padre Pasquale Palumbo, sosteneva di avere scoperto un documento (non pubblicato, e mai più ritrovato, per la prematura scomparsa del religioso) da cui si sarebbe ricavato che già nel XVI secolo il dipinto fu sottoposto ad interventi – seppur semplici ritocchi – del pittore Guido da Gubbio.

Le attribuzioni a Cimabue dal 1570 ad oggi

La prima attribuzione a Cimabue, avanzata da fra’ Ludovico da Castello, risale a circa il 1570  (fonte: Cristofani in “BU”, 1926). Al frate seguì il Ranghiasci (fonte: prefazione di C. Fea nella pubblicazione, nel 1820, di uno scritto dello studioso: “Descrizione ragionata della sagrosanta patriarcal basilica e cappella papale di S. Francesco”) e successivamente da tutti i più esperti critici. Tuttavia non mancano i diffidenti, tra i quali ricordiamo Wickhoff (1839) e Langton Douglas, quest’ultimo segnalato da Cavalcaselle e Crowe nel 1903, che vi rileva la mano di pittori della scuola senese.

Maestà (Louvre) di Cimabue

Cimabue: Maestà (Louvre) (o Madonna col Bambino)

Cimabue: Cimabue: Maestà (Louvre) (o Madonna col Bambino)
Cimabue: Maestà, 424 x 276 cm. Louvre, Parigi.

Sull’opera: “Maestà” è un dipinto attribuito a Cimabue realizzato con tecnica a tempera su tavola in data imprecisata (i critici, discordi fra loro, indicano date che vanno dal 1280 al tardo periodo), misura 424 x 276 cm. ed è custodito nel Museo del Louvre a Parigi. 

 In precedenza la presente composizione si trovava nella chiesa di San Francesco a Pisa, come testimoniano due antiche autorevoli fonti (Billi e Vasari), da dove fu prelevata, insieme a moltissime altre opere d’arte, dalle truppe napoleoniche come bottino di guerra e trasferita a Parigi nel 1811.

La tavola, che fu sottoposta a restauro negli anni 1937-38, ha una cornice lungo la quale sono raffigurati ventisei tondi intervallati da decorazioni gotiche. Prima del restauro il Sirén fece un’analisi ben dettagliata della pala (fonte: “REA” 1926), dalla quale si evidenziò il pessimo stato di conservazione: la stesura pittorica, soprattutto quella relativa alle figure principali (Madonna e Bambino, comprese le aureole), erano totalmente ridipinte come pure lo sfondo aureo, insieme a tutto il bordo che corre ai lati, compresi i tondi e le decorazioni gotiche che li delimitano.

Per quanto riguarda la struttura compositiva lo stesso Sirén mise in evidenza il conflitto prospettico tra le fiancate del trono, riprese di scorcio, e gli scalini:  “i gradini sono raffigurati frontalmente secondo una ‘prospettiva inversa’ che suscita un senso di instabilità. Per questo diletto di disegno, la costruzione non si regge, e perciò tutta la parte centrale da una impressione di piattezza. È solo con il situare tre angeli uno dietro l’altro ai due lati del trono che l’artista riesce ad ottenere un certo senso di profondità”.  Tuttavia lo studioso non si astenne nell’attribuire l’opera a Cimabue, pur riservandosi di non escludere la collaborazione della sua scuola.

Molti, però, sono i contrasti tra gli studiosi di storia dell’arte: Da Morrona, in  “Pisa illustrata” (1787-92), vi riscontrava grandi diversità con tutte le altre Madonne cimabuesche, ponendola quindi in verosimili rapporti con la Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna, mentre Langton Douglas (ed. Cavalcaselle-Crowe, 1903) l’assegnava alla scuola senese. Secondo il Suida (“PJ” 1905), poteva sì legarsi alla celebre Madonna di Duccio ma non tanto da essere a lui riferita, se non a un ignoto maestro del quale approfittò, per l’appunto, a nominarlo “Maestro Rucellai”. L’Aubert (1907) e il Van Marle (1923) la avvicinavano alla pittura fiorentina, sempre negandone l’attribuzione a Cimabue, mentre il Soulier, dopo un accurato esame (1929) che prendeva in considerazione soprattutto la tecnica di tale periodo nell’Italia centrale, l’assegnava a Duccio, ma come ”libera copia da Cimabue”, evidenziando le forti similitudini della zona centrale.

Ritornando agli esperti che sono a favore dell’autografia a Cimabue, oltre alle antiche fonti già sopra citate, si possono ricordare, tra i molti, il Thode (“RFK” 1891), il Frey (1911), Adolfo Venturi (1907, questi, addirittura, la definì “simile” alla Madonna della Galleria degli Uffizi), Berenson (“AA” 1920), Toesca (1927) che ne evidenziava gli influssi di Nicola Pisano (1215/1220 – 1278/1284), Sinibaldi (1943), Ragghianti (in “Miscellanea minore di critica d’arte”, anno 1946) e Samek Ludovici (1955). Nell’attribuzione del dipinto all’artista, gli studiosi appena citati inseriscono la tavola nel suo più tardo periodo. Il Longhi (1948), pensando ad un soggiorno a Pisa di Cimabue, prima del viaggio per Roma, la colloca invece in un periodo giovanile, evidenziandoci (come già detto per il Toesca) influssi della maniera di Nicola Pisano. L’ipotesi del Longhi verrà accettata dal Volpe (“PA” 1954), dalla Marcucci (“PA” 1956) e dal Bologna (1982).

Crocifisso (Museo dell’Opera di Santa Croce) di Cimabue

Cimabue: Crocifisso (Museo dell’Opera di Santa Croce)

Cimabue: Crocifisso (Museo dell'Opera di Santa Croce)
Cimabue: Crocifisso, 448 x 390, Basilica di Santa Croce, Firenze (foto da Wikimedia Commons). (come era prima dell’alluvione del 1966)

Sull’opera: “Crocifisso” è un dipinto autografo di Cimabue realizzato con tecnica a tempera su tavola nel 1287-88, misura 448 x 390 cm. ed è custodito nella Basilica di Santa Croce a Firenze. 

 Il pregiato dipinto fu distrutto quasi completamente dal famoso alluvione del 1966, quando fu violentemente travolto dalle acque, che rimossero irrimediabilmente gran parte della stesura pittorica. Tuttavia rimangono le riproduzioni fotografiche a testimoniare l’eccezionale valore dell’opera.

Il Crocifisso in quel brutto giorno fu trovato totalmente sommerso ma ancora sul suo supporto. Gli uomini addetti al salvataggio immediatamente lo adagiarono su una superficie piana premurandosi di lasciare la stesura pittorica rivolta verso l’alto, onde evitare ulteriori distacchi di pittura. Si pensò subito ad  una prima disinfestazione e, quindi, all’applicazione di prodotti protettivi. Dopo un mese circa, gli fu fatta un’altra disinfestazione e trasferito alla Limonaia nel giardino di Boboli, dove iniziarono i primi procedimenti preparatori per il vero e proprio restauro.

L’accurato lavoro avvenne presso il laboratorio restauri della Soprintendenza alle Gallerie di Firenze, sotto la supervisione di Umberto Baldini, che dichiarava: “fa veramente impressione, oggi, vedere la grande Croce lignea privata della sua superficie pittorica. Vederla, cioè, come la vide e la ebbe Cimabue prima di farvi incollare la tela, stendervi l’imprimitura e dare inizio alla pittura. La sua grandiosità si esalta in questa nudità materica, le sue misure, la sua eccezionale proporzione diventano elementi straordinari dì un’idea e di un disegno che dir perfetto è poco. Un’opera d’arte essa stessa..” (Firenze restaura, Catalogo della mostra, 1972).

La grande opera, già prima del rovinoso alluvione, si trovava in cattivo stato di conservazione nonostante avesse subìto, pochi decenni prima (1947-8), un parziale restauro. Da varie parti il colore si era staccato (spalla, mano destra e braccio dì sinistra, piedi e fianchi, aureola ed altre zone riguardanti le figure della Madonna (sinistra) e di san Giovanni (destra), mentre un velo, sovrappostosi nell’arco dei secoli alla stesura originale, ne sminuiva la lucentezza, lo sfumato cromatico, e – soprattutto – le trasparenze del grande perizoma.

Manca – oggi, come già prima del terribile evento – il clipeo sull’asta verticale con il Cristo benedicente. Il Crocifisso, già famoso ma divenuto ancor più noto dopo la semidistruzione del 1966, venne assegnato a Cimabue a partire dall’Albertini, Vasari, Borghini, Baldinucci, Bottari, e molti altri ancora, antichi e recenti. Tuttavia non mancavano i negazionisti, tra i quali si ricorda Morrona (Pisa illustrata, 1792), che avvicinava lo stile della “Croce” alla pittura pisana, e il Milanesi (“Vasari”, 1878) che non riusciva a collegarla con la “Madonna Rucellai” da egli stesso ritenuta di Cimabue (doppio errore se si pensa che tale “Madonna” è attribuita a Duccio). Tra questi citiamo anche il Cavalcaselle (poi pentito), il Thode ed Adolfo Venturi.

L’opera fu commissionata, molto probabilmente, per essere ubicata nella chiesa di Santa Croce (fonte: Albertini nel Memoriale edito nel 1510, ove la ritiene da sempre esistente nella basilica): alcuni studiosi pensano alla zona sinistra del transetto, altri invece, subito dietro l’ingresso. Nell’Ottocento, dopo vari spostamenti, fu trasferita nel Museo dell’Opera di S. Croce. Nel 1948 fu provvisoriamente trasferita nella Galleria degli Uffizi per poi ritornare  nel Museo, quando quest’ultimo venne totalmente ristrutturato.

Opere di Cimabue

Pagine correlate alle opere di Cimabue: Elenco delle opere – La biografia e vita artistica di Cimabue – Il periodo artistico – La critica a Cimabue – La scuola romana 1 – La scuola romana 2 – Bibliografia.

Cimabue approntava i suoi lavori stabilendo un soffice chiaroscuro delle immagini sul gesso del supporto di tavola. Su questo approntamento – a base di lacca bianca, nero e bruno – egli stendeva colore con velature lasciando al gesso stesso nel supporto di tavola la funzione di bianco, che in seguito vi aggiungeva le velature (da rosa, op. cit., 73, 79).

Vasari riferisce che tutte le opere che appartengono Giotto e alla sua scuola, rivelano la stessa tecnica di Cimabue nel lavorare l’insieme a bianco e nero e poi dargli la colorazione.

Alcuni dipinti di  Cimabue

Tutte le foto rappresentate nella presente pagina sono state scattate prima del devastante terremoto di Assisi, che relativamente all’artista in esame, frantumò la figura di San Matteo, sulla volta dei “Quattro Evangelisti” (prima campata). Il “S. Matteo” fu ricomposto con l’aiuto di un sofisticato programma configurato ad hoc dai professori di informatica dell’Università La Sapienza di Roma.

03 cimabue - crocifisso

Crocifisso, cm. 336 x 267, Chiesa di San Domenico, Arezzo.

09 cimabue - madonna con il bambino

Madonna con il Bambino in trono, quattro angeli e San Francesco, cm. 340 x 320, Chiesa inferiore di S. Francesco, Assisi. Partic. 1   2.

Assunzione della Vergine

Assunzione della Vergine, cm. 350 x 320, Chiesa superiore di San Francesco (abside), Assisi.

12 cimabue - trapasso della vergine

Trapasso della Vergine, cm. 350 x 320, Chiesa superiore di San Francesco (abside), Assisi.

13 cimabue - san marco

I “Quattro Evangelisti: San Marco, San Matteo, San Luca e San Giovanni, (particolari), cm. 450 x 900 (ciascuna raffigurazione), Chiesa superiore di San Francesco (volta centrale del transetto), Assisi.

16 cimabue - crocifissione

Crocifissione, cm. 350 x 690, Chiesa superiore di San Francesco (transetto sinistro), Assisi.

17 cimabue - visione del trono

La visione del trono e il libro dei sette sigilli, cm. 350 x 300, Chiesa superiore di San Francesco (transetto sinistro, Assisi).

18 cimabue - crocifissione di san pietro

Crocifissione di San Pietro, 350 x 300, Chiesa superiore di San Francesco (transetto destro), Assisi).

Cristo Apocalittico

Cristo Apocalittico (particolare di un assieme di 350 x 300 cm.), Chiesa superiore di San Francesco (transetto sinistro), Assisi.

19 cimabue - madonna in trono con il bambino

Madonna con il Bambino, in trono, con otto angeli, quattro profeti, cm. 385 x 223, Galleria degli Uffizi di Firenze.

01 cimabue - crocifisso

Crocifisso, 448 x 390, Basilica di Santa Croce, Firenze.

20 cimabue - san giovanni evangelista

San Giovanni Evangelista, cm. 385 x 223, Duomo di Pisa.

Maestà del Louvre

Maestà, 424 x 276 cm. Louvre, Parigi.

Elenco delle opere di Cimabue (Cenni di Pepo)

Elenco delle opere realizzate dall’artista dagli esordi fino al termine della sua carriera artistica.

Pagine correlate all’artista: La biografia e vita artistica di Cimabue – Il periodo artistico – La critica a Cimabue – La scuola romana 1 – La scuola romana 2 – Le opereBibliografia.

I dipinti più importanti di Cimabue

Crocifisso di San Domenico, anno 1268-1271 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 336 x 267 cm., Arezzo, chiesa di San Domenico.

Partecipazione ai mosaici del battistero di Firenze, anno 1270-1272 circa, Firenze, battistero di San Giovanni.

Maestà di Assisi, anno 1278-1280, affresco, 320 x 340 cm., Assisi, basilica inferiore di San Francesco.

Affreschi nella basilica superiore di San Francesco ad Assisi, anno 1280-1283 circa

Volta dei quattro Evangelisti con costoloni decorati da fogliami e faccine di putti;

Storie della Vergine

Annuncio a Gioacchino (abside).

Offerta di Gioacchino (abside).

Natività della Vergine (abside).

Sposalizio della Vergine (abside).

Trapasso della Vergine (abside).

Dormitio Virginis (abside).

Assunzione della Vergine (abside).

Cristo e la Vergine in gloria (abside).

Storie di Cristo e Scene apocalittiche

Crocifissione (transetto sinistro).

Cristo in gloria (transetto sinistro).

Visione del trono e il libro dei sette sigilli (transetto sinistro).

Visione degli angeli ai quattro angoli della terra (transetto sinistro).

Cristo apocalittico (transetto sinistro).

Caduta di Babilonia (transetto sinistro).

San Giovanni e l’angelo (transetto sinistro).

San Michele e il drago (transetto sinistro).

Storie di Cristo e Storie dei santi Pietro e Paolo

Crocifissione (transetto destro).

Trasfigurazione (transetto destro, assegnata al Maestro Oltremontano che dipinse anche figure di angeli nelle loggette).

San Pietro guarisce lo storpio (transetto destro).

San Pietro guarisce gli infermi e libera gli indemoniati (transetto destro).

Caduta di Simon Mago Crocifissione di san Pietro (transetto destro).

Decapitazione di san Paolo (transetto destro).

Altre opere di Cimabue

Maestà del Museo del Louvre, anno 1280 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 424 x 276 cm., Museo del Louvre, Parigi.

Madonna di Castelfiorentino, anno 1283-1284 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 68 x 47 cm., Museo di Santa Verdiana, Castelfiorentino.

Maestà di Santa Trinita, anno 1285-1286 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 385 x 223 cm., Uffizi, Firenze.

Crocifisso di Santa Croce, anno 1287-1288 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 448 x 390 cm., Museo di Santa Croce, Firenze.

San Giovanni Evangelista, anno 1301-1302, mosaico (disegno), Duomo di Pisa.

Opere di dubbia assegnazione o eseguite dalla bottega dell’artista

Maestà di Santa Maria dei Servi (bottega), anno 1280-1290 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 218 x 188 cm., basilica di Santa Maria dei Servi, Bologna.

Maestà Kress (attr. incerta), anno 1290 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 34,3 x 24,4 cm., National Gallery of Art, Washington.

Maestà con i santi Francesco e Domenico (bottega), anno 1290-1310 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 133 x 82 cm., collezione Contini Bonacossi, Firenze.

San Francesco (attr. incerta), tecnica a tempera su tavola, dimensioni 107 x 57 cm., Museo di Santa Maria degli Angeli, Assisi.

Flagellazione (attr. incerta), anno 1280 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 24,7 x 20 cm., Frick Collection, New York.

Tavolette con storie di Gesù

Tavolette con storie di Gesù (attribuzione dubbia), tecnica a tempera e oro su tavola Natività, 17 x 19 cm., Fondazione Longhi, Firenze:

Ultima Cena, 17 x 18 cm., Isaac Delgado Museum of Art, New Orleans.

Cattura di Cristo, 18 x 16 cm., Portland Art Museum, Portland.

Crocifissione, proprietà privata Giudizio Universale, 17 x 19 cm., proprietà privata, Milano.

Polittico Aurtaud de Montor

Polittico Aurtaud de Montor (seguace di Cimabue, probabilmente Grifo di Tancredi), anno 1290-1300 circa, tecnica a tempera e oro su tavola:

San Pietro, 67 x 35 cm., Washington, National Gallery of Art Cristo benedicente, 79 x 56 cm., National Gallery of Art, Washington.

San Jacopo, 67 x 35 cm., National Gallery of Art, Washington.

San Giovanni Battista, 58,5 x 34 cm., Chambéry, Musée des Beaux-Arts.

Affreschi della Cappella Velluti

Affreschi della Cappella Velluti (di dubbia assegnazione, probabilmente realizzati da un anonimo “Maestro della Cappella Velluti”), cronologia dubbia, basilica di Santa Croce, Firenze.

Crocifissione (di dubbia assegnazione, probabilmente eseguito da scuola veneta), anno 1300 circa, tecnica a tempera e oro su tavola, dimensioni 93 x 58 cm., proprietà privata, Firenze.

Biografia di Cimabue e la pittura gotica

Pagine correlate alla biografia di Cimabue: Il periodo artistico – La critica a Cimabue – Cimabue dalle Vite di Vasari – Le opere di Cimabue – Elenco delle opere – La scuola romana 1 – La scuola romana 2 – Bibliografia.

La pittura gotica – Cimabue e brevi cenni sulla sua vita artistica

Crocifisso, cm. 336 x 267, Chiesa di San Domenico, Arezzo.
Crocifisso, cm. 336 x 267, Chiesa di San Domenico, Arezzo.

In Italia il mondo della pittura, fino a circa la metà del XIII secolo, è condizionato da un carattere astratto nel quale non è possibile escluderne la componente bizantinoromanica, ma già incominciano ad emergere grandi personaggi che riescono ad esprimere con nuovi linguaggi una più viva e sentita umanità.

Cimabue (Cenni di Pepo, 1240-1302?), ha certamente una formazione bizantina. Tanto alta è la sua fama che verrà ricordato anche dal Sommo Poeta.

L’influsso bizantino è visibile nella Croce custodita nella Chiesa di San Domenico ad Arezzo, dove il Cristo è raffigurato con lo stesso schema di adottato in precedenza da Giunta Pisano, tratto probabilmente dalla sua croce nella basilica di San Domenico a Bologna o da un’altra croce, andata perduta, realizzata dallo stesso Giunta Pisano per la basilica di San Francesco di Assisi.

Esistono tuttavia, rispetto all’opera del Giunta, delle differenze sostanziali sia nelle forme, che risultano più incisive e forti, sia nel cromatismo che – pur avendo minori effetti di lucentezza – è più vigoroso, potente e ben accordato con le tonalità auree e rossastre della croce.

Nella Natività della Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, domina un equilibrato colorismo che ne valorizza la composizione, conferendo anche ai panneggi gradevoli effetti chiaroscurali. Le figure sono cariche di intensa vitalità, con gli atteggiamenti delle donne  adeguati ai loro rispettivi ranghi.

La stilizzata Madonna di Santa Trinità conservata agli Uffizi di Firenze, con un cromatismo assai tenue in un articolato ma gradevole disegno, ha i panneggi con efficaci brillantezze auree alla maniera bizantina che ne smorzano il modellato. Il suo atteggiamento è soave ed armonioso, ed il suo sguardo, rivolto verso i fedeli, è tenero ed affettuoso. La Madonna, ed il Bambino in atteggiamento benedicente, esprimono una grande vitalità. Il trono su cui stanno è spazioso e maestoso. Gli angeli hanno un’atmosfera di solennità, ma alcuni – soprattutto quelli al lato sinistro della Vergine – hanno nel volto segni di angoscia ed asprezza come pure due delle venerande figure in basso (quelle centrali).

Madonna con il Bambino, in trono, con otto angeli, quattro profeti, cm. 385 x 223, Galleria degli Uffizi di Firenze.
Madonna con il Bambino, in trono, con otto angeli, quattro profeti, cm. 385 x 223, Galleria degli Uffizi di Firenze.

Questi atteggiamenti, ottenuti con l’ausilio di un disegno aspro ed incisivo che esprime con così grande efficacia una buona dose di virile grandezza morale, non si erano mai visti nella pittura con tendenze bizantine. Cimabue si stacca da queste tendenze ricercando un disegno ed una coloristica atti alla conquista di una più concreta raffigurazione plastica. L’artista collabora con i mosaicisti al gigantesco rivestimento del Battistero nelle storie Lamento dei Genitori di Giuseppe, in Giuseppe tolto dalla cisterna, nella Imposizione del nome al Battista. Qui Cimabue entra in contatto diretto con le superfici da decorare lavorando in posizione ravvicinata su figure gigantesche, che lo abituano a concepire un suo modo di creare sempre più in grande ma senza staccarsi dalla realtà. Con questo gli è più facile ad arrivare ad una monumentalità mai vista prima, nelle zone della Toscana ed in particolare nella stessa Firenze. La stessa Madonna della Trinità è di proporzioni superiori a quelle del reale

Madonna con il Bambino in trono, quattro angeli e San Francesco, cm. 340 x 320, Chiesa inferiore di S. Francesco, Assisi
Madonna con il Bambino in trono, quattro angeli e San Francesco, cm. 340 x 320, Chiesa inferiore di S. Francesco, Assisi

Esiste documentazione della presenza di Cimabue a Roma nel 1272. Qui probabilmente il pittore sviluppa il senso della volumetria ed il gusto per le vaste simmetrie dalle quali hanno origine le sue esagitate ed angosciose figure. Queste sue nuove ricerche vengono presto messe in pratica nell’affresco della chiesa Inferiore di Assisi (conservato in originale fino al XIX secolo poi restaurato con parziale trasformazione) con la rappresentazione della Madonna col Bambino fra gli angeli e San Francesco e negli affreschi degli Evangelisti, le quattro storie della Vergine, le cinque scene apocalittiche e una Crocifissione.

Nella vasta stesura parietale di segni calligrafici, con una elegante simmetria nella composizione, le immagini ancora corrispondenti alle rigide regole bizantine, ma apprensive e drasticamente lumeggiate, assumono una drammaticità superiore. Risulta chiaro che la ricerca di un compromesso tra spazio, movimento e plasticismo porta generalmente l’artista verso l’insoddisfazione – che può tradursi in irrequietudine – oppure verso l’esuberanza, quasi a riflettere la sua indole burbera e irascibile.

Crocifissione, cm. 350 x 690, Chiesa superiore di San Francesco (transetto sinistro), Assisi.
Crocifissione, cm. 350 x 690, Chiesa superiore di San Francesco (transetto sinistro), Assisi.

Nella Crocifissione della Chiesa superiore di San Francesco ad Assisi (transetto sinistro) incalza il drammatico il Cristo agonizzante. Gli angeli gli roteano nelle immediate vicinanze, sopra gli astanti collocati in basso ai lati della scena centrale in due tristi raggruppamenti: in quello con la Maddalena a braccia levate verso il Cristo morente, vi regna la calma, mentre nell’altro si respira un’atmosfera agitata. I gesti straziati dei presenti portano a far convergere le linee del disegno verso il crocifisso. Qui la drammaticità della rappresentazione raggiunge il patetico e viene considerata come punto di arrivo del Cimabue, con gli energici ed aspri tratti del disegno associati al chiaroscurale con grandi effetti di contrasto uniti ad una altrettanto concreta plasticità.

Citazioni e critica su Cimabue

Citazioni e critica su Cimabue (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Pagine correlate a Cimabue: Cimabue dalle vite di Vasari – Biografia, vita artistica e periodo – Le opere – Elenco delle opere – Bibliografia.

Come hanno parlato di Cimabue gli studiosi di Storia dell’arte:

  In Italia durante il XIII secolo e soprattutto nella seconda sua metà si osserva, come esattamente dice il Toesca, un “influsso della pittura bizantina, continuo, crescente così da avere la massima intensità appunto nel momento che precedette Giotto”. Purtroppo fra gli storici che scrissero del Dugento italiano, il Toesca rimane l’unico il quale esprima questa opinione pienamente corroborata dai fatti. Il Venturi non ha valutato in misura sufficiente la parte di Bisanzio; il Siren che specialmente ha studiato i maestri toscani del XIII secolo, è rimasto suggestionato da idee assolutamente erronee in merito all’arte bizantina: in ogni successo positivo egli invaria­bilmente vuoi vedere: “una emancipazione dal dominante stile di Bisanzio”. Non è libero da questo pregiudizio neppure il Van Marle al quale sembra non fosse mai balenata l’idea che l’arte bizantina portasse in sé tradizioni ellenistiche.   P. muratov, La pittura bizantina, 1928.

A Roma, molto più che l’antichità classica, agì su Cimabue l’influenza delle botteghe contemporanee, del Cavallini, di Jacopo Torriti e di quanti presso di loro, con opere a fresco e a mosaico, realizzavano in quell’epoca le grandi decorazioni basilicali. In realtà la scuola romana non deve alla frequentazione della scultura e ar­chitettura antica che certe soluzioni di drappeggio, alcuni motivi decorativi e soprattutto le proporzioni grandiose, la monumentalità delle figure. È proprio quest’ultimo elemento che conferisce ad essa un carattere peculiare di grandezza, attraverso il quale la tradizione si palesa nel suo più autentico significato. Del resto, l’insegnamento pittorico deriva interamente — come in tutta Italia e per gran parte in Europa — dai ‘maestri greci’, cioè dagli artisti orientali.    G. soulier, Cimabue, Duccio et les premières écoles de Toscane a propos de la Madone Guatino, 1929.

I mosaici del “bei San Giovanni” esercitarono […] un’altra e più elevata azione : spetta ad essi di aver trasformato l’ambiente e di aver trasfuso larghezza e plasticità nei dipinti su tavola, in modo da preparare l’avvento di Gimabue e di Giotto.   M. salmi, / mosaici del ‘bei San Giovanni’ e la pittura nel secolo XIII a Firenze, in “Dedalo”, 1930-31.

È attualmente oggetto di approfonditi studi in qual misura Cimabue potesse venir influenzato dalla cultura di Roma, i cui monumenti architettonici come pure l’antica tradizione del mosaico e dell’affresco murale nelle decorazioni delle chiese, erano tornati di moda negli ultimi anni del Duecento. Non va dimenticato che nel 1272, unica data certa comprovante la presenza di Cimabue nell’Urbe, il Cavallini, generalmente considerato il caposcuola del revival romano, doveva essere appena giovinetto se la sua data di nascita comunemente accet­tata è più o meno esatta. Inoltre le sue prime opere, databili con una certa attendibilità — gli affreschi già in San Paolo fuori Le Mura — sembrano essere state eseguite intorno al 1285, mentre nessuna delle opere esistenti può essere collocata prima del 1290. Naturalmente non si può dire per quanto tempo Cimabue si sia fermato a Roma poiché avrebbe potuto tornarvi in un secondo tempo ma non esistono prove che il Cavallini o qualsiasi altro pittore romano contemporaneo abbiano avuto un’influenza determinante sulla sua arte. Al contrario in parecchie sezioni della navata della Chiesa Superiore di Assisi si evidenzia il suo ascendente su taluni di questi. Così, apparentemente, ne l’omamentalismo cosmatesco ne il goticismo superficiale di Amollo da Cambio sembrano interessarlo.    A. nicsolson, Cimabue. A Critical Study, 1932.

Il tradizionale legame di Giotto con Cimabue indirizza invariabilmente tutte le indagini su una falsa strada, in quanto entrambi questi maestri partono da premesse completamente diverse. Questo è il motivo per cui sono rimasti infruttuosi gli innumerevoli tentativi degli studiosi di scoprire lavori di Giotto tra i dipinti dei seguaci di Cimabue nella chiesa superiore di San Francesco in Assisi. Giotto non potè prendere parte a questi dipinti, poiché apparteneva ad una generazione più giovane, la cui attività si basava ormai sulla riforma realizzata da Cavallini. Con il ciclo di San Francesco, uscito dalla scuola romana, e che non rivela la benché minima somiglianzà stilistica con le opere autentiche di Giotto, questi non ha alcun rapporto. V. lazarev, Storia della pittura bizantina, 1947- 48 (ed. it. 1967).

Il neoclassicismo bizantino in due diverse varianti, di ritmica lineata la prima, di vecchio illusionismo plastico la seconda, toccano Duccio e il Cavallini che rischierebbero entrambi una suprema accademia se poi non corressero a salvamento, il primo avvertendo la vivente flessibilità ‘gotica‘ (erede della passione carolingia), il secondo, proprio all’opposto di quanto si assume comunemente, strusciandosi alla massiccia finzione ‘romanica‘ di Giotto.   R. longhi, Giudizio sul Duecento, in “Proporzioni”, 1948.

[…] Poiché il frescante di Anagni mostra chiaramente di muoversi lungo quella linea di sviluppo del tardo bizantinismo di provincia che è attestata da una serie, purtroppo quanto mai lacunosa, di cicli d’affresco balcanici, a cominciare da quello altissimo di Nerez, dove una ventata calda di umanissima drammaticità ricompone in un ritmo nuovo e appassionato le compassate cadenze della vecchia tradizione bizantina. Non si vuoi negare con questo che fermenti occidentali possano entrare per qualcosa nella formazione dei maestri di Anagni e di San Martino, ma è certo che quell’inclinazione patetica non era patrimonio esclusivo dell’occidente, ma animava ormai da almeno cent’anni tutta una vasta corrente — che si suoi dire pro­vinciale — dell’impero artistico di Bisanzio. Sarà da osservare piuttosto che nel Maestro di San Martino è, rispetto al precedente di Anagni, un fare più solenne, un’intonazione più eroica che fa supporre questo maestro al corrente anche di manifestazioni metropolitane del neoellenismo. Comincia così ad acquistare concretezza storica l’intuizione del Nicholson sui rapporti che forse potrebbero cogliersi fra l’arte di Cimabue e la pittura macedone del XII secolo. E meglio si chiarisce il valore della componente bizantina, che sarebbe altrettanto ingiusto sopravalutare che sminuire, nell’arte del maestro fiorentino. Componente che va abbracciata in tutta la sua complessità : nel suo tronco metropolitano, di spirito più raffinato ed aulico, e nelle sue diramazioni provinciali, più fervide e drammatiche, ma anche in quella sintesi delle due correnti, già tinta magari di occidentalismo, quale si coglie appunto nel Maestro di San Martino.

Nel ciclo della chiesa alta di Assisi possiamo valutare appieno il significato della radice bizantina dell’arte di Cimabue : che se lo spirito spregiudicatamente combattivo di quella drammaticità rivela una mentalità artistica tutta occidentale, pure l’accento cupamente malinconico che lo colora ha una chiara affinità elettiva col pathos macerante dei freschisti di Balcania. Mentre l’ampiezza del metro e lo spirito catartico che vi si esprime, necessaria controparte a tanto abbandonato espressionismo, è retaggio della ritmicità totale della bizantinità aulica.   R. salvini, Postilla a Cimabue, in “Rivista d’arte”, 1950.

[…] Lo stesso primo tempo di Cimabue, durante il settimo decennio, non manca di interessare gli spiriti un po’ tenebrosi, ma apprensivi nell’ambito, ad esempio, umbro-aretino, innestando quel che di tragicamente nuovo essi potevano intendere dalla Croce di San Domenico nella traccia della tradizione di Giunta. Per non soggiungere […] di Coppo stesso che nel decennio successivo sembra raccogliere più intimamente che mai, a Pistoia, dalla supremazia poetica di Cimabue.           C. Vou», Preistoria ai Ducevi, in “Paragone”, 1954.

Il genio, quando è tale, non ha bisogno di inventare, ma sta alla vita e al contributo valido del passato, che gli è dentro da sé, per ragione morale: non si può dubitare perciò che Cimabue, nell’intelligenza della tumultuosa capacità di vero confessata da questi grandi spiriti, si risolvesse a recuperarne il sentimento e prendesse a muoversi con spregiudicata libertà lungo la china dei secoli, sino a ricongiungersi ai miniatori coloniesi della fine del secolo X, per tanti aspetti neo-carolingi, e finalmente ai grandi artisti moderni dell’Occidente, da Nicolas de Verdun ai maggiori maestri vetrari di Francia, che Nicola Pisano stesso poteva avergli additato.   F. bologna, Pittura italiana delle origini, 1962.

[…] in quegli anni, ancor prima delle forme antiquarie, si andavano recuperando le antiche passioni. Gli artisti, come i poeti, già presentivano la ripresa del motivo platonizzante del furore eroico della mania ispirata dalle muse, che legittima ogni originalità ed audacia immaginativa. Gli eroi della Crocifissione assisiate si distinguono dagli ammansiti personaggi di Bisanzio perché reagiscono in modo violento ed imprevisto. Il loro comportarsi fa pensare, oltre che a saltuari passi delle cronache storiche, ad una pagina di L. Anneo Seneca, dove l’ ” Ira ” è definita ” passione funesta e rabbiosa, giacché mentre tutte le altre presentano un qualche aspetto di tranquillità e di pacatezza, essa invece è tutta concitazione e impeto di risentimento, invasata com’è da un desiderio, per nulla umano, di combattimento, di sangue e di torture, incurante di sé pur di nuocere altrui, pronta a scagliarsi contro le armi stesse e avida persino di una vendetta che è destinata a trascinare con sé il vendicatore”. Questa sublime definizione prelude, è vero, ad una condanna dell’ira quale “breve follia” (sulla scorta di Grazio), priva di dignità, immemore dei legami sociali, ostinatamente pertinace nei suoi scopi. Ma in Cimabue, alle soglie, come noi del resto, di un mondo morale nuovo, questa pagina, se l’avesse letta, avrebbe certamente ribadito la convinzione che la rivolta per quanto cieca è meglio di qualsiasi rassegnazione, allorché si tratta di temi in cui la ragione non basta. I suoi eroi hanno, come gli eroi del Seneca morale, “il volto truce e minaccioso, la fronte aggrottata, l’espressione torva, il passo concitato, le mani irrequiete, il colore del viso mutato, i sospiri frequenti”. Anche in essi “gli occhi scintillano e dardeggiano, i denti si serrano […] crocchiano le articolazioni nel tor­cersi […] tutto il corpo è agitato e lancia violente, irose minacce”. Dietro ogni grande capolavoro che riesce a sopravvivere per secoli e millenni conservando viva la sua suggestione, c’è un altrettanto grandioso background morale. Dietro, anzi dentro la Crocifissione di Cimabue, se non erriamo, c’è la prima immagine di umanità rivoltata della storia italiana. Rivolta, è vero, in nome di Dio: ma nel nome di Dio si faceva allora la politica, la storia e l’economia.            E. battisti, Cimabue, 1963.

Nell’atmosfera assisiate galvanizzata dalla lucida predicazione dell’Olivi, Cimabue potè trovare una condizione congeniale alla sua sensibilità complessa di uomo ancora per tanti versi legato ad una cultura medioevale di tipo giuntesco e coppesco, sostanzialmente polarizzata su una problematica mistico-devozionale, e per altri aspetti proteso ad una visione più evoluta che già presente il rinnovamento giottesco. Da un lato, infatti, sentiamo una sorgiva partecipazione alla tematica escatologica medioevale, dall’altro invece, nelle modalità del racconto nitido e icastico, strutturato e in molti brani già modernamente naturalistico, avvertiamo un sentimento di fierezza (anche se sublimata ad un livello eroico) che sottintende una nuova nozione dell’uomo. Anche in questa convergenza di elementi culturali e poetici Cimabue si trova sullo stesso piano dell’Olivi, il quale sa strutturare ed elaborare il suo pensiero ancora visionario ed escatologico m un telaio razionale, che tende a logicizzare e a storicizzare il racconto apocalittico.A. Monferini, L’apocalisse di Cimabue in “Commentari” 1966.

Cenni critici prima del 1928

Citazioni e critica su Cimabue

Citazioni e critica su Cimabue (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Pagine correlate a Cimabue: Cimabue dalle Vite di Vasari – Il periodo artistico – La vita artistica – Le opere – Elenco delle opere – Bibliografia.

Quello che ha detto la critica degli studiosi di Storia dell’arte di Cimabue:

  O vanagloria dell’umane posse, com’ poco verde in su la cima dura,

se non è giunta dall’etati grosse!

Credette Cimabue nella pittura

tener lo campo; ed ora ha Giotto il grido

sa che la fama di colui oscura.

Così ha tolto l’uno all’altro Guido la gloria della lingua; e fors’e è nato chi l’un e l’altro caccerà di nido.   dante alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, I, 91-99, 1310 -15 circa

Qui narra per esempio, e dice, che come Oderigi nel miniare,

così Cimabue nel dipingere, credette essere nominato per lo miglior pittore del mondo, e il suo credere venne tosto meno, peroché sopravvenne Giotto, tale che a colui ha tolto la fama; e dicesi ora pure di lui. Fu Cimabue nella città di Firenze pintore nel tempo dello Autore, e molto nobile, de più che uomo sapesse; e con questo fu sì arrogante, e sì sdegnoso, che se per alcuno gli fosse a sua opera posto alcuno difetto, o egli da sé l’avesse veduto (che, come accade alcuna volta, l’artefice pecca per difetto della materia in ch’adopera, o per mancamento che è nello strumento, con che lawica) immantenente quella cosa disertava, fosse cara quanto si volesse.               anonimo fiorentino (Andrea Lancia?), l’ottimo commento della ‘Divina Commedia’ (sec. XIV), I, 1828.

Nella città di Firenze, che sempre di nuovi uomeni è stata doviziosa, furono già certi dipintori e altri maestri, li quali essendo a un luogo fuori della città, che si chiama San Miniato a Monte, per alcuna dipintura e lavorio, che alla chiesa si doveva fare; quando ebbono desinato con l’Abate, e ben pasciuti e bene avvinazzati, conunciorono a questionare; e fra l’altre questione mosse uno, ch’avea nome l’Orcagna, il quale fu capo maestro dell’oratorio nobile di Nostra Donna d’Orto San Michele : Quale fu il maggior maestro di dipignere. che altro, che sia stato da Giotto in fuori? Chi dicea che fu Cimabue, chi Stefano, chi Bernardo (Daddi), chi Buffalmacco, e chi uno e chi un altro. Taddeo Gaddi, che era nella Brigata, disse:

“Per certo assai valenti dipintori sono stati, e che hanno dipinto per forma, ch’è impossibile a natura umana poterlo fare: ma quest’arte è «cauta e viene mancando tutto dì“.   F. sacchetti, Trecentonovelle, Novella 136, 1392-97 e

[…] E fra questi per primo Giovanni, soprannominato Cimabue, quell’arte della pittura, ancora antiquata e, per l’insipienza dei pittori, puerilmente staccata dalla somiglianza della natura, cominciò con perizia e ingegno a riportarla alla natura, quando ne era ormai bizzarramente lontana. Si sa poi che, prima di lui, la pittura latina e greca era rimasta per molti secoli sotto il dominio dell’assoluta imperizia, come mostrano chiaramente le figure e le immagini che adornano, in tavole e affreschi, le chiese. Dopo di lui essendo già stata aperta la via, Giotto, che non solo è da paragonare agli antichi pittori per fama, ma da preporre loro per l’abilità dell’ingegno, riportò alla primitiva dignità e fama la pittura.   F. villani, De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus, 1405 C.

Cominciò l’arte della pittura a sormontare in Etruria. In una villa allato alla città di Firenze, la quale si chiamava Vespignano, nacque un fanciullo di mirabile ingegno, il quale si ritraeva del naturale una pecora. In su passando Cimabue pittore per la strada a Bologna vide il fanciullo sedente in terra e disegnava in su una lastra una pecora. Prese grandissima ammirazione del fanciullo, essendo di sì piccola età fare tanto bene. Domandò, veggendo aver l’arte da natura, il fanciullo come egli aveva nome. Rispose e disse. — Per nome io son chiamato Giotto: il mio padre a nome Bondoni e sta in questa casa che è appresso. — disse. Cimabue andò con Giotto al padre : aveva bellissima presenza : chiese al padre il fanciullo : il padre era poverissimo. Concedettegli il fanciullo e Cimabue menò seco Giotto e fu discepolo di Cimabue : tenea la maniera greca, in quella maniera ebbe in Etruria grandissima fama: fecesi Giotto grande nell’arte della pittura.    L. ghiberti, I commentari, II, 1455.

Giovanni pittore, per cognome detto Cimabue, fu circha il 1300 e nelli sua tempi per le sue rare virtù era in gran veneratione. E esso tu, che ritrovò i lineamenti naturali e la vera proportione, da Greci chiamata simetria, et fece le fiure di varii gesti e teneva nell’opere sue la maniera Grega. Hebbe per compagno Gaddo Gaddo et per discepolo Giotto.

Et tra l’altre sue opere si vede in Firenze una Nostra Donna grande in tavola nella chiesa di Santa Maria Novella acanto alla Cappella de Rucellaj. E nel primo chiostro de frati di Santo Spirito fece certe historie non molto grandi. In Pisa nella chiesa di San Francesco è di sua mano in tavola di­pinto un san Francesco.

A ‘Scesj [Assisi] nella chiesa di Santo Francesco dipinse, che dipoi da Giotto fu seguitata tale opera.

In Empoli nella pieve operò anchora.    anonimo fiorentino, Codice Magliabechiano, 1537- 42 c. (ed. Frey, 1892).

Ma per tornare a Cimabue, oscurò Giotto veramente la fama di lui, non altrimenti che un lume grande faccia lo splendore d’un molto minore; perciò che sebbene fu Cimabue quasi prima cagione della rinnovazione dell’arte della pittura, Giotto nondimeno, suo creato, mosso da lodevole ambizione et aiutato dal cielo e dalla natura, fu quegli che andando più alto col pensiero, aperse la porta della verità a coloro che l’hanno poi ridotta a quella perfezzione e grandezza, in che la veggiamo al secolo nostro […].    G. vasari, Le Vite, 1568.

[…] E così, innanzi che Cimabue e Giotto fussero al mondo, si dipigneva nel mondo, ma Cimabue scoperse e Giotto firn di trovare una così nuova e bella e non più dagli uomini d’allora veduta maniera, che le pitture usate fino a quel dì parvero ch’ogni altra cosa fossero che pitture […].    F. baldinucci, Notizie de’ professori del disegno. I, 1681.

Vasari attribuisce a Cimabue la maggior parte delle pitture della Chiesa Superiore di Assisi; ma basta avere una piccola idea del disegno e della maniera di lui e di Giotto suo scolaro per avvedersi del contrario; si distinguono le maniere progressive di Giunta, di Cimabue, di Giotto, di Giottino, che vi dipinsero. Cimabue è quello che vi fa peggior comparsa. Regna nelle sue pitture una stucchevole monotonia […].   G. della valle, Lettere senesi di un socio dell’Accademia di Fossano sopra le Belle Arti, I, 1782.

Comunque siasi, Giovanni su l’esempio di altr’italiani del suo secolo vinse la greca educazione, la quale pare che fosse di andarsi l’un l’altro imitando, senza aggiugner mai nulla alla pratica de’ maestri. Consultò la natura; corresse in parte il rettilineo del disegno; animò le teste, piegò i panni, collocò le figure molto più artificiosamente de’ Greci. Non era il suo talento per cose gentili : le sue Madonne non han bellezza; i suoi Angeli in un medesimo quadro son tutti della stessa forma. Fiero como il secolo, in cui viveva, riuscì egregiamente nelle teste degli uomini di carattere, e specialmente de’ vecchj imprimendo loro un non so che di forte, e di sublime, che i moderni han potuto portare poco più oltre. Vasto e macchinoso nelle idee diede esempi di grand’istorie, e l’espresse in grandi proporzioni. Le due Madonne in grandi tavole, che ne ha Firenze,  l’una presso i Domenicani, con alcuni busti di santi nel grado; l’altra in S. Trinità, con quei sembianti di Profeti, sì grandiosi, non danno idea del suo stile come le pitture a fresco nella Chiesa Superiore di Assisi, ove comparisce ammirevole per que’ tempi. In quelle sue istorie del Vecchio e Nuovo Testamento, che ci rimangono (perciocché non poche ne ha scancellate, o almen guaste il tempo) egli apparisce un rozzo Ennio, che fin dall’abbozzare l’epica in Roma da lumi d’ingegno da non dispiacere a un Virgilio.   L. lanzi, Storia pittorica della Italia, I, 1809.

L’ingegno, la maestria di Cimabue, non potranno mai essere tenuti in troppo alto prestigio; ma nessuna Madonna di sua mano avrebbe mai fatto esultare l’anima dell’Italia, se durante mille anni, precedenti, più d’un Greco e più d’un Goto d’ignoto nome non avrebbe mai fatto esultare l’anima dell’Italia, se durante mille anni, nell’amore di lei. […]

Conciliare il dramma con il sogno era il compito, relativamente facile, di Cimabue; ma non altrettanto facile era conciliare il buon senso con la follia (sempre adoperando con molta reverenza tale parola). Non deve perciò recar meraviglia che colui, il quale succedendo a Cimabue vi è riuscito, abbia un gran nome nel mondo.     J. ruskin, Mornings in Florence, 1876 (ed. it. 1908).

Non a caso i tre altari della Chiesa Superiore sono consacrati ai santi Maria, Pietro e Michele, nei confronti dei quali san Francesco nutriva una devozione particolare. Anzi la raffigurazione di san Michele e le ‘storie’ apocalittiche a lui riferentisi assumono valore simbolico come allusive a san Francesco, in cui si vede realizzata la profezia del settimo angelo dell’Apocalisse. Gli affreschi alludono quindi all’avvento di una nuova epoca, alla liberazione della Chiesa, alla lotta dei tre ordini francescani contro il drago dell’eresia. Ma a raffigurare degnamente tali eventi doveva essere il pittore più importante di quel secolo cui Francesco aveva impresso il suo segno, e cioè Cimabue. A lui e a nessun altro sono da attribuire tutti gli affreschi discussi. Già nella prima Crocifissione incontriamo una grande personalità di creatore e innovatore che a mano a mano, nel corso del lavoro, si è sviluppata in modo sempre più espressivo e pregnante trovando la più alta perfezione nella Crocifissione del transetto meridionale. Questo serve a porre in chiaro in modo inequivocabile la differenza fra originalità dell’invenzione e autonomia della sensibilità artistica. Le scene della vita di Pietro e di Maria sono generalmente raffigurazioni che ripetono schemi iconografici tradizionali, ma trattate con nuovo vigore. Nell’insieme sembra che non vi sia nulla o quasi di nuovo, ma da ogni singola figura, da ogni movimento si sprigiona un’energia compositiva prima sconosciuta, in un cosciente anelito di monumentalità. Non si tratta più di figure che avanzano timidamente, prive di forze interiore e meccanicamente tipizzate, bensì di esseri umani consapevoli della loro forza e della loro intima potenzialità.   H. thode, Franz von Assisi …… der Renaissance in Italien, 1885.

Questa abilità selettiva nella scelta dei modelli si palesa in artisti particolarmente dotati come Nicola Pisano e Cimabue; ma in Cimabue interviene un altro fattore di rilievo : la dimensione della personalità umana. Raramente, anche pittori a noi noti o di nome o per l’ingente produzione artistica, quali ad esempio Giunta Pisano, Guido da Siena, Margaritone d’Arezzo, Coppo di Marcovaldo si distinsero per una loro spiccata personalità. Per quanto riguarda l’arte paleo-cristiana, l’arte musiva romana, l’arte bizantina e siculo-normanna non nasce in noi il desiderio di conoscere l’identità dei singoli artisti alle cui mani si debbono tali opere, essendo esse carenti di un’impronta personale e interpretando soltanto gli orientamenti artistici del tempo e del genere trattato. Cimabue è il primo ad assumere una configurazione propria che stimola lo spettatore, interessandolo alle vicende personali del maestro. E questo perché è il primo pittore che ha saputo conferire alle figure da lui plasmate un sapore terreno dando loro pensieri e sentimenti autonomi.   M. I. zimmermann, Giotto und die Kunst Italiens im Mitlelalter, 1899.

Tutto ciò che noi sappiamo di Cenni dei Pepi è questo: che egli era un ragguardevole artista fiorentino, soprannominato Cimabue, fiorito nella seconda metà del secolo XIII e nei primi anni del seguente; che egli aveva eseguito un mosaico per la Cattedrale di Pisa e una pala d’altare nella stessa città; l’una delle quali è stata dispersa, mentre l’altro fu interamente rinnovato.   L. douglas, The Reni Cimabue, m “Nineteenth Century”, 1903.

I risultati delle nostre ricerche sulla patria artistica del grande Maestro d’Assisi e sulla sua collocazione nella storia della pittura italiana sono dunque i seguenti : le sue radici affondano nella vita artistica fiorentina della seconda metà del XIII secolo; la sua arte è strettamente connessa attraverso vari canali allo sviluppo artistico di Roma; la sua attività in Assisi cade intorno al 1270 (ad ogni modo non molto prima) e negli anni seguenti egli avvia, in quanto antesignano, quel processo innovatore dell’ultima generazione del Duecento, quell’evoluzione artistica che funge da premessa all’opera innovatrice di Giotto.   A. aubert, Die malerische Dekoration der S. Francesco Kirche in Assisi, Ein Beitrag zur Losung der Cimabue Frage, 1907

A destra sono dipinti i fatti della vita di San Pietro, e si discernono le scene della Guarigione dello storpio alla porta del tempio di Gerusalemme, la Caduta di Simon Mago, la Crocefissione dell’Apostolo. Infine la Crocefissione di Gesù chiude pure il ciclo delle rappresentazioni di questo braccio destro, secondo lo Zimmermann, d’un artista più antico di Cimabue, ancora informato ai canoni dell’arte precedente e che dovette adattarsi alla scelta ed alla disposizione dei soggetti secondo il pensiero di Cimabue. Eppure la mano del maestro si riconosce quasi da per tutto nel braccio destro della crociera; vedansi, ad esempio, alcune teste […], che sembrano ricavate da un bassorilievo in bronzo. Probabilmente egli ebbe un aiuto, che usò in specie nelle decorazioni della galleria superiore, in cui mutano le vecchie forme delle archeggiature, là terminate a cuspidi allungate con gugliette laterali. Questo sopravvenire o accentuarsi del gotico segna di per sé una forma più nuova del resto, onde, meglio che a un vecchio artista sopraffatto dal giovane Cimabue, si può pensare a un giovane pittore aiuto del maestro fiorentino, che si rivela tutto ispirato alle forme romane nel Terebinto neroniano a nicchioni e nelle grandi sagome delle architetture, dipinte nei fondi dei quadri con la vita di San Pietro. Per lui è la rinascita dell’antico nella pittura, come per Niccola d’Apulia nella scultura. Così Cimabue e il Cavallini suo compagno lavorano di conserva, per annodare le loro giovani forze alla tradizione secolare e condurre l’arte a forma italiana.    A. venturi, Storia dell’arte italiana, V, 1907.

[.,.] Il Rintelen giunge a una interpretazione molto artificiosa del famoso passo del Purgatorio (e. XI). Egli fa un’equazione : Guinicelli – Cavalcanti = Cimabue – Giotto e ne inferisce che Cimabue è collocato in una schiera di uomini equivalenti, tra cui si trova lo stesso Cavalcanti, l’amico di Dante e il mistagogo dello “sdì novo”; i due miniatori, meno importanti e citati evidentemente a mo’ di esempio, vengono quindi lasciati prudentemente sulla soglia. Il Rintelen ritorna persino all’antica opinione naturalmente non confutabile, ma difficilmente dimostrabile, che Cimabue possa esser stato il maestro di Giotto, perché Dante sarebbe nominato indirettamente accanto ai suoi due “maestri”, Guinicelli e Cavalcanti, ciò che neppure è sicuro ed è anche assai combattuto dagli interpreti moderni. Proprio lo stesso hanno scoperto nel passo di Dante gli antichi scoliasti; forse inconsapevolmente; ma questi hanno anche fatto, allo stesso modo, Franco scolaro di Oderisi! Che Dante dunque ponga su uno stesso piano Cimabue e il Guinicelli da lui tanto stimato, è un’ipotesi arbitraria e indimostrabile, che ci obbligherebbe anche a considerare Odorisi come il terzo della serie. In tutto il passo, che ha soltanto un significato morale, corrispondente all’ambiente, non c’è alcuna vera intenzione di apprezzamento. Nessuno vorrà dubitare che Cimabue fosse ancora per Dante una figura reale; ma non possiamo assolutamente sapere in qual grado e se veramente in un grado superiore ai due miniatori di Gubbio e di Bologna, che eran pure suoi contemporanei; e tutte le altre son parole vane. Già per i primi commentatori di Dante, e soprattutto per quelli che vennero poi, Cimabue non era nulla di più che un nome, su cui la sapienza degli scoliasti andava accumulando tutto ciò che pareva plausibile; troppo è evidente il processo di formazione della leggenda, per poter supporre diversamente. Allo stesso modo intomo ai due miniatori è nato un intreccio di leggende che nessuno oggi prende sul serio. Di questo soltanto si tratta; dal Cimabue di Dante, a voler esser sinceri, nessuna via conduce più al Cimabue che noi oggi conosciamo, soltanto da un’opera restaurata di seconda mano. il mosaico di Pisa, e da un paio di magre notizie documentarie, quantunque questa via possa essere stata ancora accessibile a Dante; e neppure conduce agli epigoni del secolo XVI, di cui solo il Billi si mette a citare delle opere che erano rimaste ancora ignote al principale testimone del Trecento, il Ghiberti! Ne meno ci deve impensierire il fatto che a Cimabue, la cui fama è dovuta soltanto a Dante, troviamo un parallelo perfetto in Policleto, la cui fama eccezionale nel Rinascimento, dovuta anch’essa alla menzione che di lui si fa nella Commedia, non ha alcuna rispondenza nella tradizione antica.    J. schlosser magnino, Die Kunslliteratur, 1924 (ed. it. 1964.

Continua cenni critici

San Giovanni Evangelista (Duomo di Pisa) di Cimabue

Cimabue: San Giovanni Evangelista (Duomo di Pisa)

Cimabue: San Giovanni Evangelista (Duomo di Pisa)
Cimabue: San Giovanni Evangelista (particolare), cm. 385 x 223 (l’assieme), Duomo di Pisa.

Sull’opera: “San Giovanni Evangelista” è un particolare autografo di Cimabue appartenente al grande mosaico “Cristo in trono fra la Vergine e san Giovanni”, realizzato intorno al 1301-2. L’intera composizione si trova nel catino absidale del Duomo di Pisa. 

 Quello in esame è soltanto un particolare del grande mosaico del “Cristo in trono fra la Vergine e san Giovanni” raffigurato nel catino absidale del Duomo di Pisa.

Trattasi dell’unica opera documentata di Cimabue (fonte: Trenta, “I musaici del duomo di Pisa e i loro autori”, ed. nel 1396), per la quale furono emesse rimunerazioni a partire dal 2 settembre 1301 fino al 19 febbraio dell’anno successivo, e che succedette nella realizzazione della grande opera musiva a un maestro Francesco con il compito di inserire altre immagini accanto alla Maestà: “pro operando ipsum ad illas figuras que noviter fìunt circa Magiestatem inceptam in majori Ecclesie S. Marie”.

L’intera composizione venne portata a termine intorno al 1321 (certamente prima e non dopo tale data) dal giovanissimo Vincino di Vanni da Pistoia (1299-1321?/1330?).

Benché il mosaico fosse stato ripetute volte sottoposto a restauri – se ne contano quattro in tempi remoti – che ne hanno certamente alterato, anche se solo in parte, l’aspetto originale, una delle figure che parrebbe la meno snaturata è proprio quella in esame, unanimemente assegnata a Cimabue per due evidentissimi motivi: conserva il suo caratteristico linguaggio e viene indicata come sua opera in un documento datato 19 febbraio 1302 (“de summa libr decem quas dictus habere debebat de figura S. Johannis quas tecit juxta Magiestatem”).